Decisivo sarebbe stato l’attentato suicida, rivendicato dall’Isis, che lo scorso 21 gennaio ha ucciso oltre 30 persone a piazza Tayaran, a Baghdad. Il primo di questo tipo da tre anni a questa parte ha infatti convinto il primo ministro iracheno, Mustafa Al Kadhimi, a licenziare alti quadri e comandanti di una serie di agenzie di sicurezza, nell’ambito del più ampio tentativo di assumerne il controllo esclusivo in Iraq, da quelle strettamente statali alle note Forze di mobilitazione popolare (Pmf, Hashd al shaabi), cioè le milizie che in molti casi hanno legami con l’Iran.
Nel giro di 24 ore Al Kadhimi ha sostituito una serie di personalità, tra i quali spicca il nome di Abdul Karim Abd Fadhil, anche noto con la kunya (titolo onorifico nell’onomastica araba) di Abu Ali Al Basri: soprannominato il Maestro delle spie, Al Basri è stato rimosso dalla direzione dell’unità di intelligence dei “Falchi” e sostituito da Hamid al Shatri, ex segretario per l’Agenzia di sicurezza nazionale. Secondo alcuni politici iracheni intervistati da Middle East Eye, si tratta di una sorta di “golpe morbido” di Al Kadhimi.
Negli anni più duri della guerra all’Isis in Iraq, e ancor meno dopo la sconfitta degli uomini di Abu Bakr al-Baghdadi, dei “Falchi” si è sentito parlare ben poco, nonostante le loro prerogative nelle attività di antiterrorismo siano state per molti versi fondamentali. A differenza dell’omonima unità della polizia italiana – che si occupa della repressione di crimini di strada, servendosi di agenti in borghese a bordo di motociclette -, i “Falchi” (in arabo al suqour) iracheni sono una unità anti-terrorismo di circa 5mila effettivi, tra le più prestigiose dell’intera regione e tra le più efficaci nella guerra all’Isis.
Fondate nel 2006 dallo stesso Al Basri e inquadrate come servizio di intelligence segreto dall’ex primo ministro Nuri Al Maliki nel 2001 con lo scopo di colpire i capi delle organizzazioni terroristiche attive nel Paese, i Falchi hanno ricevuto un addestramento sia dalla Cia che dall’MI6, e a loro si devono decine di attentati sventati (soprattutto autobombe) all’ultimo momento, grazie alla profonda e sistematica infiltrazione di agenti nelle organizzazioni terroristiche come l’Isis. I “Falchi” hanno un budget specifico, una magistratura ad hoc per i casi di cui si occupa e anche una prigione ad uso esclusivo, all’interno dell’aeroporto militare di Al Muthanna, a Baghdad. La sua struttura interna è quasi del tutto segreta.
Ormai leggendaria, in Iraq, la figura di un capitano dei Falchi, Harith Al Sudani, celebre tra le altre cose per essersi infiltrato così a fondo nell’Isis da esser stato incaricato di portare a termine diversi attentati, che grazie al suo coraggio non hanno avuto luogo. Almeno in una trentina di occasioni, Al Sudani – scomparso dal 2017 durante una infiltrazione, probabilmente ucciso – ha guidato in prima persona la vettura che sarebbe dovuta saltare in aria, segnalando tempestivamente l’operazione agli artificieri e arrivando a far sostituire gli ordigni con cariche esplosive controllate: in questo modo, ai capi dell’Isis veniva fatto ripetutamente credere che l’attentato fosse realmente andato a segno (con alcuni membri dei “Falchi” usati come finte vittime dell’esplosione), e per rafforzare questa convinzione Al Sudani si occupava anche delle rivendicazioni sui canali mediatici del Califfato.
Negli anni, anche grazie a rapporti diplomatici compositi – sia quelli ufficiali che quelli tra le scuole religiose irachene e iraniane -, la penetrazione iraniana in Iraq si è fatta più consistente e gli stessi “Falchi” sono finiti nell’orbita di Teheran, in particolare dal 2014, in seguito alla presa di Mosul da parte di Daesh. Lo sciita al Basri, tuttavia, non solo godeva di un rispetto generalizzato, derivante dal suo protagonismo operativo, ma anche della reputazione di figura imparziale, o comunque non legato ad alcuna delle conflittuali fazioni politiche irachene.
Al Kadhimi, però, lo accusa implicitamente di essere legato a Teheran e di avere diverse volte mancato di condividere i suoi report col ministero dell’Interno, incontrando segretamente anche un “agente di intelligence straniero” iraniano. Da parte sua Al Basri non ha negato, specificando però che tutti i suoi incontri con agenti dei servizi segreti stranieri – iraniani ma anche americani – erano stati organizzati con il pieno consenso dello stesso governo.
Secondo fonti accreditate nelle Forze di sicurezza irachene, tuttavia, buona parte degli agenti dei “Falchi” sono sciiti e tendenzialmente vicini ad Hadi Al Ameri, a capo dell’organizzazione politico-militare Badr, a sua volta vicina all’Iran, con cui non collaborerebbero direttamente ma con la quale condividerebbero informazioni di intelligence. Le loro “simpatie” sono però state occultate nel tempo – e la stessa Teheran non ha pubblicizzato questa relazione, a differenza di quanto fa con molte delle milizie inquadrate nelle Pmf – per non pregiudicare i rapporti con le autorità americane in Iraq.
Una indicazione di questa vicinanza starebbe nel fatto che nessuno dei crimini compiuti dalle milizie in Iraq è stato mai segnalato o contrastato dai “Falchi”, spiega a Middle East Eye un funzionario iracheno in condizione di anonimato. E soprattutto che agenti dei “Falchi” sarebbero stati usati per colpire rivali politici ai tempi del premier Al Maliki, come anche nella repressione da parte delle milizie filo-iraniane delle proteste di ottobre 2019, specie nelle province meridionali di Basra e Karbala.
Non è forse un caso che Al Kadhimi, nel riportare i Falchi sotto il comando del fidato Hamid Al Shatri, lo abbia istruito circa la necessità di “limitarsi al mandato specifico di guerra all’Isis e alle sue cellule dormienti”, di riportare direttamente al suo ufficio e di coordinarsi con tutte le altre agenzie di sicurezza. Misure definite da alcuni spregiudicate e accentratrici, se lette con la lente della volontà di consolidare la propria posizione in vista delle imminenti elezioni parlamentari. E che aprono un nuovo, oscuro capitolo nelle future relazioni tra Iraq e Iran, così come in quelle tra le diverse fazioni sciite del Paese arabo e un primo ministro che ne vuole ridimensionare il peso.