“È difficile chiedere a un pittore: ‘Come fai i tuoi quadri?‘. Io mi affido innanzitutto ai miei occhi e al mio intuito. Mi piace così tanto mettere la luce che non posso fermarmi. Quando giravo con Federico Fellini, non era ancora finita una scena, che io stavo già mettendo la luce per la successiva, perché in un certo senso era come se avessi paura di perdere l’intuizione”.
Così parlò Giuseppe Rotunno in occasione del mezzo secolo della propria carriera, nel 2005, lo stesso anno in cui se ne andava un altro grande direttore italiano della fotografia, Tonino Delli Colli. Ora ci ha lasciato pure lui, Rotunno, “Peppino” per gli amici, a 97 anni. Entrambi romani, hanno internazionalizzato, forse anche più di tanti registi e attori, il cinema italiano.
Rotunno deve certamente molto ad Arturo Bragaglia (ve lo ricordate, Bragaglia, nei laceri panni del barbone Alfredo di Miracolo a Milano, 1951, di De Sica?). Bragaglia infatti, prima d’essere prolifico attore, era stato ritrattista e fotografo insieme con il fratello Anton Giulio, poi regista per trent’anni. Nel laboratorio dei due nobili germani ciociari conduce, infatti, il proprio apprendistato il giovane Rotunno che, dotato di grande talento, diviene poi assistente operatore di Vàclav Vich, il cecoslovacco che illuminò film di Blasetti, Alessandrini, Matarazzo e tanti altri. Ma passò anche per le botteghe dei maestri fotografi Renato Del Frate e Rodolfo Lombardi, quest’ultimo a sua volta allievo di Giovanni Pucci.
Solo un apprendistato faticoso e sudato può sfornare geni, la pratica della bottega è oggi quasi inesistente… e i risultati si vedono, magari osservando disgustati le luci di una fiction tv.
Chi volesse sapere chi sia stato davvero il Maestro appena scomparso e dei suoi rapporti con Visconti o Fellini dovrebbe leggersi il volume Giuseppe Rotunno e la verità della luce scritto da Orio Caldiron, edito da Skira (purtroppo di difficile reperibilità).
Fortunatamente, Rotunno è stato docente responsabile del corso di fotografia presso il Centro Sperimentale per 25 anni, dal 1988 fino al 2013, dedicandosi “con slancio e rigore” alla formazione di nuove generazioni. Il che potrebbe far ben sperare in qualche allievo talentuoso.
Impossibile (e inutile) elencare, in poche righe, tutti i film cui ha dato la luce Rotunno (sono una sessantina). Cito il primo impegno professionale: Cristo non si è fermato a Eboli, di Michele Gandin (con il quale ha collaborato a lungo), un documentario sociale del 1952 che evidenzia il tema dell’alfabetizzazione postbellica e che vince il Leone d’oro a Venezia.
Ma già nel 1943 Roberto Rossellini lo aveva cooptato come operatore per L’uomo della croce, storia di un coraggioso cappellano militare. Fino alla sua ultima fatica, Marcello Mastroianni – Mi ricordo, sì, io mi ricordo, girato nel 1997 dalla compagna dell’attore Anna Maria Tatò.
Il primo suo primo lungometraggio ufficiale è Pane, amore e… (1955) di Dino Risi. Nel mezzo c’è un’intera stagione di film che hanno hanno glorificato il nostro cinema nel mondo. A cominciare da quelli di Luchino Visconti per il quale Rotunno dirige la seconda unità di fotografia in Senso già nel 1943, poi Le notti bianche, tratto da Dostoevskij (1956), Rocco e i suoi fratelli (1960), miglior fotografia a Cannes 1961, Il Gattopardo (1963), altro nastro d’argento a Cannes 1964, Lo straniero (da Camus) del 1967.
E ben otto film con Federico Fellini (nonostante il rapporto abbia inizio solo nel 1968 con l’episodio Toby Dammit, da Tre passi nel delirio, e termini nel 1983 con E la nave va, passando per Satyricon, Roma, Amarcord, Casanova, Prova d’orchestra, Città delle donne).
Fra gli altri registi italiani che hanno lavorato con Rotunno potremmo citare… tutti: De Sica, Pasolini, Monicelli, Zurlini, Soldati, Pietrangeli, Wertmüller, Faenza, Argento. E anche cineasti d’oltreoceano lo hanno voluto al proprio fianco: da Kramer a Johnson (con due film entrambi con Ava Gardner), Ritt, Huston, Nichols, Fosse (per il grande All That Jazz), Zinnemann, Fleischer, Gilliam, solo per citarne alcuni.
E, come tutti i grandi, Rotunno non ha mai snobbato i film di genere: sin dal 1954 con l’Attila di Francisci, fino a Il bestione di Corbucci (1974). E persino gli spot ha girato, come quello per la Banca di Roma nel 1992.
Grande sperimentatore di nuove tecnologie visive, Rotunno – ricorda Caldiron nel suo libro – “realizza in elettronica la fotografia di Giulia e Giulia (e siamo nel 1987! nda) di Peter Del Monte, destinato a restare per molti anni l’unico esperimento interamente girato in HDTV (High Definition Television)”. E ancora “si cimenta con lo Showscam ne Il sogno di Leonardo (’89) di Douglas Trumbull”.
Splendida, la scenografia filmata su sette schermi verticali realizzata a La Scala per il Guglielmo Tell di Rossini, diretto dal maestro Muti con regia di Ronconi. In una approfondita intervista del 2013 a Giulio Brevetti per Artforum, Rotunno aveva detto: “La crisi che c’è, generale, è anche una crisi economica nel cinema, quindi si fa fatica a lavorare oggi. Mi dispiace quello che vedo fare, la sofferenza che c’è per fare un lavoro”. Aveva novant’anni.