IL COMMENTO - La "svolta" del leader leghista appare viziata da opportunismo e strumentalizzazione ispirati verosimilmente dalla gestione dei 209 miliardi di aiuti Ue. Per questo il presidente incaricato dovrebbe porre due condizioni: sul posizionamento all'Europarlamento e sulla durata dell'esecutivo
È tanto improvvisa quanto poco credibile, e ancor meno affidabile, la “conversione” di Matteo Salvini sulla strada di Bruxelles. Lui non è certamente l’apostolo Paolo e, a quanto risulta finora, Mario Draghi non è dotato di poteri soprannaturali. Il neo-europeismo del capo leghista, appena inaugurato in questa fantasmagorica crisi di governo, appare viziato in effetti da una buona dose di opportunismo e di strumentalizzazione: l’uno e l’altra ispirati verosimilmente dal maldissimulato proposito di “mettere le mani” sui 209 miliardi del Recovery Fund, 82 a fondo perduto e 127 di prestiti.
Alla vigilia di queste consultazioni, Salvini aveva cominciato con un aut aut: “O la Lega o il M5s”. Poi è sceso rapidamente a più miti consigli e s’è presentato al primo incontro con Draghi a mani basse: “Non poniamo condizioni, siamo a disposizione”. Ma in realtà le condizioni dovrebbe esigerle dalla Lega per primo il presidente del Consiglio incaricato e magari dovrebbero esigerle insieme a lui i potenziali alleati di questa maggioranza in formazione, a cominciare dal M5s e dal Pd.
Se c’è un perimetro da definire e difendere per la formazione del nuovo esecutivo, questo può essere soltanto l’europeismo. E non basta ora che Salvini imponga ai suoi parlamentari a Strasburgo di approvare il Regolamento del Recovery Fund né che professi una “svolta” tardiva e sospetta sui migranti. Anche la religione cattolica, attraverso il sacramento e il rito della confessione, richiede ai peccatori di pentirsi e di fare penitenza per essere assolti.
La prima condizione, dunque, che Draghi farebbe a bene a pretendere da Salvini è quella che la Lega esca dal gruppo parlamentare europeo Identità e democrazia, nazionalista, sovranista ed euroscettico. È sufficiente consultare Wikipedia per sapere che questa formazione si colloca fra la destra e l’estrema destra, all’insegna del populismo e del conservatorismo con un orientamento anti-immigrazione. E per di più la Lega ne è il partito maggiore, tanto da detenere la presidenza con il suo Marco Zanni.
Una seconda condizione fondamentale riguarda la durata di questo governo. “Pochi mesi, al massimo fino a giugno, poi elezioni”, continua a proclamare imperterrito il leader del “Papeete Beach”. Ma come si può conciliare questo ultimatum con la gestione e i tempi del Recovery Fund? Si sa che l’Italia deve presentare il suo piano entro aprile e che la Commissione europea avrà due mesi per approvarlo o meno. Ammesso pure che “Super-Mario” riesca a compiere il miracolo di predisporre tutto rapidamente e a rispettare le richieste di Bruxelles, la prima erogazione dei fondi avverrà all’inizio dell’estate e poi proseguirà per il prossimo triennio “a rate” fino al 2023.
Che senso ha, allora, fissare a giugno la scadenza di un esecutivo che nasce proprio per distribuire la “manna” del Next Generation Ue? Può accettare Mister Bce di guidare un governo “a termine”? Possono accettarlo i Cinquestelle e il Partito democratico? E soprattutto, con tutto il rispetto che si deve alla persona e alla figura istituzionale, può accettarlo il presidente della Repubblica?
All’interno del perimetro europeo, si fa già fatica ad ammettere una componente come Forza Italia che almeno milita da sempre nel Partito popolare. Non c’è bisogno dei voti “spuri” della Lega per far nascere un governo di salute pubblica: basta la cosiddetta “maggioranza Ursula” che ha eletto la signora Von Der Leyen alla presidenza della Commissione, con il sostegno determinante dei Cinquestelle. Se Salvini vuole “contribuire al bene del Paese”, può benissimo astenersi come ha già deciso di fare più coerentemente Giorgia Meloni con i suoi Fratelli d’Italia. Nel 1993, del resto, Carlo Azeglio Ciampi fu il primo non parlamentare a diventare presidente del Consiglio, accontentandosi di 309 voti alla Camera e 162 al Senato, rispettivamente con 60 contrati e 182 astenuti a Montecitorio e 36 no e 50 astensioni a palazzo Madama. Anche quello era un governo “tecnico”, o tecnico-politico, e non subì imboscate dagli alleati che lo sostenevano.