L’Italia alla fine ha detto sì ai monoclonali, ma anche l’epilogo è alquanto sofferto. Il ministro Speranza ha autorizzato la distribuzione per il trattamento dei pazienti Covid a valere su un fondo da 400 milioni (lo stesso dei vaccini). L’Aifa per bocca del Dg Magrini riferisce di potenziali 100 trattamenti al giorno. Sembra la fine della storia, ma non lo è: le resistenze e i dubbi fanno capolino e rischiano di condizionare ancora l’accesso all’unica opzione di cura attualmente disponibile.

Il caso si riapre in seno all’Aifa stessa, la cui resistenza in materia ha provocato uno scontro dentro l’agenzia, col ministero della Salute e gran parte della comunità scientifica e clinica che oggi tira un cauto sospiro di sollievo mentre un’altra parte, ovviamente, polemizza. Sotto la lente finisce proprio il parere con cui il 5 febbraio la Cts dell’agenzia del farmaco ha autorizzato gli anticorpi prodotti da Regeneron ed Eli Lilly (scarica). La multinazionale di Indianapolis ha inviato una formale richiesta di rettifica dei dati e del testo, richiesta che è fonte di ulteriore imbarazzo. Che cosa è successo?

Il parere, votato a maggioranza, ha dato il via libera. A leggerlo però sembra quasi estorto con le pinze, specie per i monoclonali prodotti a Latina al centro del famoso trial gratuito cui Aifa aveva detto “no” a ottobre, quando il virologo Silvestri lo aveva proposto in sperimentazione perché fosse subito disponibile all’Italia. La proposta, come noto, cadde nel vuoto per asseriti dubbi d’efficacia e problemi regolatori (“senza Ema non si può autorizzare” sostenne pubblicamente il Dg Magrini). Per mesi non se ne sa nulla salvo scoprire che altri Paesi, Germania in testa, si erano fatti avanti autorizzando e acquistando i monoclonali. Il castello di riserve vacilla. Il ministero decide di accelerare e chiede all’Agenzia un parere ufficiale. La Cts alla fine autorizza, ma con un testo che resta problematico anche per la credibilità dell’ente regolatorio.

Oggi a Latina, per dire, erano attesi l’assessore del Lazio e il sindaco di Firenze Nardella. Per la prima volta varcano il cancello della Bsp Pharmaceuticals dove si produce il Bamlavinibam che le regioni ora potranno acquistare per trattare i pazienti a rischio nella speranza che non finiscano in ospedale o morti. Se leggessero il parere della Cts forse non lo farebbero. Perché riportando i dati di efficacia non si capisce neppure perché mai Aifa li abbia poi autorizzati. E dunque perché qualcuno ora ritenga di acquistarli.

C’è un retroscena però che forse spiega. L’indomani del parere è lo stesso produttore a contestarlo formalmente. Eli Lilly aveva messo a disposizione della Cts gli studi pubblicati e un clinico nell’audizione preliminare proprio per spiegarli ai membri del comitato. Ma non è bastato. Per la Lilly il parere pubblicato contiene gravi “inesattezze”. Ad esempio, nella citazione dei dati sulla riduzione dei ricoveri al 70% sulla base dello studio Blaze-1, quando i dati della fase 2 mostrano una riduzione dell’82,76% delle ospedalizzazioni rispetto al placebo nella popolazione generale e dell’80% in quella ad alto rischio. Idem per il dato sulla riduzione del cocktail Bamlanivimab e Estesevimab che “non è stato riportato correttamente”: la riduzione della mortalità – fa notare l’azienda – è indicata al 70% (Fase3 dello studio Blaze-1) quando è stata del 100% nel braccio di trattamento mentre il 70% si riferisce a tutti gli eventi in forma aggregata, vale a dire ricovero, accesso in pronto soccorso, morte. Sul punto il direttore generale Magrini fa notare che la “riduzione tanto sbandierata del 70% non riguarda la mortalità, e il calo dei ricoveri è del 5-10%”. Ma dall’altra parte che in termini percentuali questa riduzione equivale a più dell’80%: se avevo 58 pazienti ne avrò 10, in termini assoluti ho ridotto di 48, in percentuali del 82,76%.

Per diversi esperti quel documento è più “politico” che tecnico, volto cioé a tenere compatta la posizione dell’Agenzia che sulla vicenda dei monoclonali aveva finora dato prova di viaggiare col freno a mano tirato, anziché alla velocità del virus. Una prudenza giustificata solo in parte dalla limitatezza dei dati e delle applicazioni disponibili (pazienti ad alto rischio con sintomatologie da lieve a moderata, infusione entro 72 ore), travolta poi dalle scelte del ministero. Il decreto emanato da Speranza, a seguito delle consultazioni con il Consiglio superiore di sanità e del Dipartimento medico del ministero, dà il via libera all’uso emergenziale andando ben oltre il bicchiere mezzo vuoto raccontato dal parere dell’Aifa poi contestato. In Gazzetta oltre al Regeneron e alla monoterapia della Lilly autorizza anche l’uso combinato dei suoi farmaci, prima ancora dell’Fda o dell’Agenzia europea del Farmaco. Altro che “non si può approvare senza l’Ema”. Il tappo del regolatorio, con le sue resistenze, evidentemente è saltato. E l’Italia che decideva di non decidere diventa pioniera nella sperimentazione. Per qualcuno quell’atteggiamento è garanzia di cautela, per altri grida ancora vendetta. La prudenza, a seconda del dosaggio, a volte salva la vita e altre volte no. Sarà l’utilizzo di quei farmaci a dirlo.

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