Finalmente sappiamo ufficialmente ciò che non era difficile da pronosticare.

I siti dove accogliere in sicurezza i rifiuti radioattivi in Italia, noto sfasciume pendulo sul mare, non sono molti. E non ci sono perciò sorprese né bizzarrie sulla mappa delle possibili localizzazioni del Deposito Nazionale, l’infrastruttura ambientale di superficie che dovrebbe accogliere in sicurezza i rifiuti radioattivi prodotti in Italia.

I miei allievi del corso di Eredità Nucleare e Sostenibilità Ambientale degli scorsi anni avevano provato a “indovinare” i possibili siti, applicando sul campo i criteri di localizzazione stabiliti dalle norme. E il luogo di progetto prescelto nel loro esercizio è compreso nella lista dei siti papabili appena resa nota.

Noti i criteri, non era un rebus impossibile. Ciò che si sapeva e non si diceva, però, ora si sa e si dice. Questa è la novità, grazie al coraggio dal Governo Conte. Da cinque anni, nessun governo aveva osato alzare il velo, forse perché gli italiani adorano la fantasia e rimuovono la realtà.

Ho fatto parte dell’Osservatorio per la Chiusura del Ciclo Nucleare. Era un organismo nato nel 2014 grazie al Governo Letta, con l’obiettivo della trasparenza, in un’attività dove la trasparenza è stata centellinata, sia in Italia, sia altrove. L’Osservatorio doveva supportare, monitorare e garantire un corretto andamento del processo di coinvolgimento degli stakeholder in tema di smantellamento dei siti nucleari; gestione e messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi; localizzazione, progettazione e realizzazione del Parco tecnologico annesso al Deposito.

Con il successivo governo, “osservare” tutto ciò sembrò affatto superfluo se non dannoso, soprattutto se chi osservava non era un attore protagonista dell’industria nucleare. E si chiuse la baracca senza neppure avvertire burattini, i quali peraltro non ne furono troppo feriti: prestavano la loro consulenza in modo pressoché gratuito.

Se, a parole, gli addetti ai lavori sbandierano la trasparenza e la multidisciplinarità, non c’è settore storicamente così opaco come il nucleare, tranne il bellico, come ovvio.

Tecnici, economisti e decisori che governano l’uso pacifico del nucleare – dall’energia alle altre, molteplici, applicazioni di queste tecnologie – hanno spesso eretto un muro per tenere a bada la gente comune. Questa barriera ha anche riparato gli addetti ai lavori da molti e sfaccettati aspetti del sapere, che pur sarebbero necessari a un equo e sicuro sviluppo di questa tecnologia sul territorio. Fisici, chimici e ingegneri nucleari hanno sempre messo l’accento sull’aggettivo della loro qualifica professionale, piuttosto che sul sostantivo.

Perché ho una certa conoscenza del nucleare? L’acqua è un elemento necessario e indispensabile per l’industria nucleare e, nello stesso tempo, il peggior nemico della sicurezza, come le tragedie di Cernobyl e Fukushima hanno dimostrato. E, in diversi periodi della mia vita professionale, ne ho esplorato entrambe le facce.

Non è solo una questione di idraulica e idrologia: ci sono altri, numerosi rami del sapere che sono indispensabili per una efficace, efficiente e condivisa chiusura del ciclo nucleare, dall’ingegneria delle strutture e delle infrastrutture alla geologia e all’ecologia, dalla pianificazione territoriale e paesaggistica all’architettura, senza dimenticare le scienze umane e sociali.
La Direttiva Europea 2011/70 Euratom è chiara. Il deposito va realizzato, e basta.

La questione riguarda prima di tutto lo stoccaggio sicuro ma temporaneo dei rifiuti ad alta attività, ossia la costosissima risulta delle centrali nucleari dismesse e dei reattori sperimentali. Non è però secondario dove smaltire in sicurezza la grande quantità di rifiuti radioattivi che, ogni giorno, producono gli ospedali, le industrie e i laboratori di ricerca. Se i primi sommano a circa 15mila metri cubi di materiale altamente radioattivo, ci sono 75mila metri cubi di rifiuti a media e bassa attività da stoccare in modo definitivo. I siti interessati da depositi provvisori non sono pochi. E qualche volta sono prossimi a luoghi abitati, se non in città.

Mentre l’Italia non produrrà altri rifiuti ad alta attività, possiamo pensare a un futuro senza rifiuti nucleari a bassa e media attività solo rinunciando a metodi ormai consolidati di diagnostica e terapia medica. E penalizzando l’industria cartaria, alimentare, automobilistica e aeronautica. Non ci si può nascondere dietro l’ignavia, a meno di non rinunciare a una radiografia se ci rompiamo un braccio o dobbiamo sanare un dente.

In un remoto passato, ho utilizzato con un certo successo le tecniche di monitoraggio nucleare per studiare uno dei rompicapi scientifici della mia disciplina: l’erosione, il trasporto e il destino dei sedimenti fluviali. Il vantaggio competitivo di questa tecnologia era, all’epoca, enorme rispetto ad altre soluzioni.

Non manca il sapere per affrontare con successo la messa in sicurezza e la bonifica del nucleare ove necessario; e va utilizzato con trasparenza. Non si tratta di sacrificare le competenze settoriali, fondamentali sotto il profilo tecnologico, ma va adottato un metodo scientifico agli antipodi della pratica del passato: la multidisciplinarità.

La chiusura del ciclo nucleare non è una realtà separata, ma un problema ambientale e sociale da trattare e risolvere in modo limpido e condiviso.

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