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Trump, l’impeachment arriva al Senato. Star del partito o ex presidente da abbandonare: il dilemma dei repubblicani

È accusato di avere incitato l'assalto al Congresso e di avere mentito sulle ipotesi di frode elettorale. Il calendario del processo appare definito e la fine è prevista per l'inizio della settimana prossima. Quasi sicuramente non ci saranno 17 voti repubblicani necessari per condannarlo. Ma potrebbero essercene alcuni molto «pesanti» politicamente

Inizia oggi al Senato degli Stati Uniti il processo contro Donald Trump. Si tratta della seconda richiesta di impeachment per l’ex presidente. L’accusa, formalizzata dalla Camera, è quella di «incitamento all’insurrezione». Trump si sarebbe reso responsabile di «gravi crimini e misfatti», invitando i suoi supporters a compiere atti di violenza contro il governo degli Stati Uniti. Nell’accusa sono citate le affermazioni menzognere di Trump sulle frodi elettorali, la richiesta al segretario di stato della Georgia di falsificare il risultato elettorale, infine la richiesta ai supporters di assaltare il Congresso il 6 gennaio, mentre deputati e senatori erano impegnati a certificare il risultato delle presidenziali. L’articolo dell’impeachment (passato alla Camera con 232 voti favorevoli contro 197 contrari; 10 repubblicani hanno votato con i 222 democratici) afferma anche che l’ex presidente «ha dimostrato di essere una minaccia alla sicurezza nazionale, alla democrazia e alla Costituzione». Per questo, Trump dovrà essere nel futuro bandito da «ogni incarico di onore, fiducia, profitto» negli Stati Uniti.

Il calendario del processo appare definito. Dopo un voto iniziale sulla costituzionalità di giudicare un presidente che ha lasciato il suo incarico, accusa e difesa avranno sedici ore ciascuna per presentare le proprie tesi, a partire da mercoledì a mezzogiorno. Dopo un’interruzione venerdì sera, per onorare Sabbath, i senatori dovrebbero tornare in aula domenica, in modo da concludere il procedimento all’inizio della settimana prossima. Joe Biden ha chiesto ai democratici di fare presto. Il nuovo presidente teme che il processo possa rallentare la sua agenda legislativa. Per questo i tempi del secondo impeachment a Trump saranno molto più veloci rispetto a quelli della prima messa sotto accusa, nel gennaio 2020.

L’ACCUSA – La necessità di concludere il processo in tempi brevi influenza le scelte dell’accusa. Non ci sarà richiesta di ascoltare testimoni e si cercherà di evitare il più possibile lunghe diatribe legali e noiose presentazioni di fatti. Essendo l’aula del Senato anche il luogo in cui si sono svolti i fatti, è il ragionamento dei democratici, non ci sarà bisogno di testimoni; i testimoni del presunto crimine sono gli stessi senatori. Si sa già che l’accusa farà ampio uso di filmati. Il team di Jamie Raskin, il democratico del Maryland che guida gli impeachment managers responsabili di sostenere l’accusa, ha visionato ore e ore di video: filmati che documentano il comizio di Trump prima dell’attacco al Congresso, le testimonianze dei suoi supporters che poi parteciparono all’assalto, ma anche le molte dichiarazioni dell’ex presidente nelle settimane precedenti il 6 gennaio. «Più si riesce a documentare sui tragici eventi del 6 gennaio, sulla condotta criminale del presidente, sulla sua reazione mentre il Congresso era attaccato – ha detto il democratico Adam Schiff – più sarà difficile per i senatori nascondersi dietro una foglia di fico». Una curiosità: gran parte del team legale su cui i democratici contano è lo stesso che guidò l’accusa durante il primo impeachment. Quindi, tra gli altri, sono stati reclutati Barry Berke, celebre avvocato newyorkese, e Joshua Matz, esperto di diritto costituzionale. Prepariamoci quindi a ore di video trasmessi nel buio dell’aula del Senato. Il culmine dovrebbe della presentazione multimediale dovrebbe essere la giustapposizione tra le immagini in cui l’ex presidente invita i suoi seguaci a «combattere come all’inferno» – e quelle in cui gli stessi supporters assaltano il Congresso.

LA DIFESA DI TRUMP – Il team incaricato di difendere l’ex presidente è guidato da due avvocati, Bruce l. Castor e David Schoen (non è stato facile per Trump trovare legali disposti a difenderlo; Butch Bowers, un avvocato del South Carolina che in un primo tempo aveva assunto l’incarico, si è dimesso quasi subito). La base legale della difesa si articolerà su due questioni. La prima riguarda l’incostituzionalità di processare un presidente, dopo che questi ha lasciato l’incarico (e su questo dovrebbe esserci un voto iniziale). Secondo la difesa, la Costituzione non fa espresso riferimento a questo potere del Senato e «non ci sono mansioni pubbliche da cui un ex presidente può essere rimosso, ciò che rende l’articolo di impeachment controverso e non giustificabile».

La richiesta della difesa dovrebbe essere liquidata con un voto a maggioranza semplice, proprio all’inizio del procedimento. Si passerà dunque al secondo argomento degli avvocati di Trump: quello che ruota attorno al Primo Emendamento e alla libertà di espressione. Si sa che Trump avrebbe voluto che il suo team legale ripetesse, al Senato, la tesi delle elezioni manipolate. Ma la questione è troppo controversa e rischia di alienargli le simpatie dei senatori repubblicani. Ecco quindi che si è preferito aggirare la questione. Secondo gli avvocati di Trump, l’accusa di «incitamento all’insurrezione viola il diritto alla libertà di parola e di pensiero del 45esimo presidente». La tesi della difesa è che Trump davvero credesse «di aver vinto le elezioni con una larga maggioranza» e che quindi fosse suo diritto, protetto dal Primo Emendamento, «esprimere la convinzione che i risultati elettorali fossero sospetti».

Si tratta di una tesi già respinta da 144 studiosi di diritto costituzionale (dei più vari orientamenti, si va da Steven G. Calabresi della conservatrice Federalist Society a Floyd Abrams, che rappresentò il New York Times nel caso dei Pentagon Papers). Secondo questi studiosi, il Primo Emendamento serve a difendere i cittadini da eventuali tentativi del governo di limitare il diritto di espressione, e non c’entra nulla con un procedimento di impeachment volto a giudicare se un Presidente ha violato il giuramento di fedeltà alla Costituzione.

Un ulteriore elemento di debolezza della difesa di Trump potrebbe venire dalle testimonianze di diversi partecipanti all’assalto del 6 gennaio, che nelle loro testimonianze hanno affermato di aver seguito l’appello dell’ex presidente di marciare sul Congresso. «Il presidente ha una responsabilità? Al diavolo, certo che ce l’ha», ha detto l’avvocato di QAnon Shaman, l’uomo che ha assalito il Congresso in costume da vichingo.

L’ESITO FINALE E I REPUBBLICANI – Nel caso, al momento del voto, i senatori dovessero essere tutti presenti, ci vorrà una maggioranza di 67 voti per condannare Trump (la maggioranza dei due terzi). Ai 50 democratici, dovrebbero quindi aggiungersi 17 repubblicani; cosa improbabile. «Al momento, una maggioranza per condannare l’ex presidente non c’è», ha ammesso Susan Collins, la senatrice repubblicana del Maine che appare tra le più disponibili a votare contro Trump.

Difficile, molto difficile quindi, che il processo si concluda con la condanna dell’ex presidente. Nel partito repubblicano stanno però succedendo alcune cose interessanti, che forse non porteranno a un voto contrario a Trump ma che segnalano importanti trasformazioni. L’ala istituzionale del partito, quella guidata da Mitch McConnell, ancora maggioritaria a Washington, deve affrontare la sfida ormai aperta dell’ala populista, che (dopo gli anni dei Tea Parties) ha trovato in Trump il proprio punto di riferimento. I due schieramenti in questi anni hanno collaborato in tema di tagli alle tasse e nomine di giudici «originalisti». L’alleanza, che Trump ha incarnato e garantito, è però affondata proprio sulla figura dell’ex presidente. L’ala populista in questi anni è assurta a cariche, nel partito e al Congresso, cui ora non vuole rinunciare. In gioco c’è il controllo del Republican National Committee e dei suoi finanziamenti. L’idea dei repubblicani più istituzionali – o «business Republicans» come li chiamano alcuni – di mettere da parte Trump e di guardare avanti è a questo punto contestata da una parte consistente dei militanti e della struttura del partito repubblicano.

Per i senatori repubblicani in questo momento più vicini a Trump e alle sue posizioni populiste – Tom Cotton, Kevin Cramer, Joni Ernst, Ted Cruz, Lindsay Graham, Josh Hawley, Ron Johnson – non si pone quindi il problema: Trump va difeso e la richiesta di impeachment negata. Diverso è il ragionamento che fanno alcuni dei repubblicani più legati al vecchio establishment, da McConnell a Rob Portman a Richard Shelby. Questi sanno che Trump in questi anni ha raggiunto una straordinaria popolarità tra i militanti repubblicani e che il suo carisma è servito a raccogliere milioni di finanziamenti elettorali. Sanno però anche che la stella dell’ex presidente potrebbe cominciare a impallidire, e che Trump nel giro di qualche mese potrebbe non essere più così capace di raccogliere voti e dollari.

Dall’assalto al Congresso, il 6 gennaio, Twitter, Facebook e altri social hanno messo al bando o limitato le tirate del presidente. Una serie di cause da parte delle società fornitrici delle macchine elettorali – accusate da Trump e dai suoi accoliti di aver manipolato i risultati delle elezioni – stanno tappando la bocca proprio a chi, su Fox News, su Newsmax TV, su One America News Network continuava ad alimentare la teoria del voto manipolato (le TV hanno paura di dover pagare richieste di danni milionarie e quindi hanno fatto sparire il tema dai loro programmi). Una serie di importanti finanziatori repubblicani hanno deciso di non donare più a senatori e deputati che hanno accreditato con il loro voto la tesi delle elezioni rubate; e importanti multinazionali hanno per il momento congelato ogni tipo di donazione elettorale. Un sondaggio delle ultime ore ABC News/Ipsos mostra che il 56 per cento degli americani ritiene che Trump dovrebbe essere condannato e bandito da future cariche pubbliche.

Di fronte a questi fatti e dati, cosa si fa? Si continua a scommettere su Trump come star presente e futura del partito, come catalizzatore di voti e finanziamenti? Oppure lo si abbandona, presumendo che la sua influenza andrà inesorabilmente spegnendosi nei prossimi mesi? Il dilemma peraltro non riguarda soltanto la leadership repubblicana a Washington. Tutto il partito, a livello locale e statale, è scosso da queste tensioni, come dimostrano i casi di Liz Cheney, la deputata del Wyoming finita nell’occhio del ciclone per aver votato a favore dell’impeachment di Trump; e di Marjorie Taylor Greene, la deputata della Georgia le cui posizioni trumpiane e cospirazioniste sono state definite «un cancro» proprio da Mitchell McConnell.

È questo il contesto che rende il voto dei senatori repubblicani sull’impeachment a Trump molto più complesso di quanto potrebbe a prima vista apparire. Quasi sicuramente non ci saranno 17 voti repubblicani per condannare Trump. Ma potrebbero essercene alcuni molto «pesanti» politicamente (per esempio proprio McConnell, che ha spiegato di ritenere Trump «responsabile» dell’attacco del 6 gennaio), e tali da dare il senso e la direzione della guerra civile in corso nel partito repubblicano.