La storia è emersa grazie al lavoro dell'attivista Sarita Fratini che ha cercato di ricostruire la vicenda, che risale al 1 luglio 2018, raccogliendo decine di testimonianze di migranti. Cinque di questi, con l'aiuto di Asgi e Amnesty Italia, hanno avviato un’azione civile per far dichiarare l’illegittimità del respingimento
“La nave italiana ci ha preso in mare la sera del 1 luglio 2018. Il comandante ci ha detto ‘Adesso dormite. Domattina vi sveglierete in Italia‘”. E dopo le torture, la fame, la sete, dopo la carezza della morte a bordo di un gommone che si afflosciava, alla fine hanno dormito. Ma la mattina, il 2 luglio 2018, è apparso il porto di Tripoli, in Libia. E loro, che su quella nave erano 276, sono finiti tutti in due diversi centri di detenzione, i lager libici per i migranti.
È il racconto di un “respingimento” rimasto nell’ombra troppo a lungo e portato alla luce grazie alla tenacia di alcune persone. In primis dall’attivista e blogger Sarita Fratini e dal collettivo di cui è portavoce, ‘Josi e Loni project’. Josi era un ragazzino quando è salito su quella nave italiana: è morto sul pavimento di una di quelle prigioni per migranti, a Zintan, dopo settimane di agonia per una tubercolosi, senza assistenza né medicinali. Loni, invece, è il miracolo, perché in uno di questi centri di detenzione, nell’inferno, è riuscito a nascere. Era il 6 maggio 2019 quando sul suo blog Sarita Fratini ha scritto quello che era riuscita a scoprire fino a quel momento. E in quel post c’è la storia, poi riportata anche un diario di bordo che, non a caso, si chiama Adesso dormite. Quello che hanno detto ai 276 migranti, tra cui 54 bambini e 29 donne, sopravvissuti a un viaggio estenuante a bordo di tre gommoni, uno dei quali è affondato, trascinando nell’abisso la metà delle persone a bordo. I superstiti provenivano da 16 diversi Paesi.
DAVANTI AL TRIBUNALE – Quello che non c’è tra le pagine del diario di bordo è il risvolto a cui si è arrivati: cinque cittadini eritrei che erano a bordo della nave italiana, con il sostegno dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e Amnesty International Italia hanno avviato un’azione civile per far dichiarare l’illegittimità del respingimento in Libia del 2 luglio del 2018 attuato dalla nave Asso Ventinove della flotta napoletana Augusta Offshore “nell’ambito di operazioni coordinate dalle autorità italiane di stanza in Libia – scrivono le associazioni – e con la collaborazione della cosiddetta Guardia Costiera libica”. Il 12 febbraio si terrà una conferenza stampa nel corso della quale saranno raccontati i dettagli dell’azione intrapresa, con gli avvocati Luca Saltalamacchia e Giulia Crescini del collegio difensivo che saranno presenti insieme alle associazioni. E spiegheranno anche il ruolo che in questa vicenda hanno avuto l’Italia e la compagnia di navigazione, che parrebbe centrale. Ci sarà anche Sarita. “Quando sentiamo parlare di questi respingimenti – racconta a ilfattoquotidiano.it – siamo abituati a contare i numeri, ma queste sono persone e noi abbiamo voluto portare gli umani in un processo per i diritti umani. E vogliamo dare un peso alle parole. Le cose si riportano (in Libia, ndr), le persone si deportano. E noi parliamo di deportati”.
LA RICOSTRUZIONE – E dire che tutto è partito da un’altra storia. Mentre cercava di scoprire che fine avessero fatto i 101 migranti ‘riportati’ in Libia il 30 luglio 2018 a bordo della Asso Ventotto, diventata un caso internazionale, la ricerca dell’attivista è passata attraverso i racconti di alcuni testimoni, in Tunisia, e di un ragazzino chiuso in un centro di detenzione libico, a Zintan. Questo ragazzino, che lei chiama Ato Salomon, è riuscito a inviare da un telefonino un audio nel quale spiegava che a portarlo in Libia era stata una nave italiana. “Solo che non era il 30 luglio, tutto era accaduto tra il 1 e il 2 luglio 2018”, spiega Sarita. Nel lager con Ato c’erano molte persone scese dalla stessa nave quel giorno: “Mi hanno confermato che la notte del 1 luglio 2018 erano salpati dalla Libia su gommoni carichi di persone, uno dei quali è affondato”.
Hanno navigato verso Nord per 20 ore. Il giorno dopo, intorno alle 21, sono stati raggiunti da una motovedetta libica. Poi è arrivata la nave italiana “bianca e rossa”. In un primo momento, dai racconti sembrava si parlasse anche in questo caso della Asso Ventotto, ma solo dopo aver confrontato i tracciati della nave si è capito che la nave in questione era la Asso Ventinove, proveniente da Malta. A quel punto si è aperto un nuovo scenario. Non è chiaro se quella fosse l’unica nave arrivata sul posto, ma dai racconti emerge che i libici hanno fatto salire i naufraghi sulla nave italiana. Le donne hanno parlato per prime, hanno urlato in inglese di essere eritree, chiedendo protezione internazionale e di andare in Europa. Gli italiani avrebbero sorriso e dato loro l’acqua: “State tranquilli, vi sveglierete in Italia”. Ma la mattina è apparsa la costa della Libia. Li hanno scaricati nel porto di Tripoli e incarcerati nei lager. Gli uomini sono finiti a Tarek al Mattar. Ato avrebbe compiuto 18 anni solo tre giorni dopo.
LA BATTAGLIA – Sono passati due anni e mezzo, che l’attivista ricostruisce, ricordando tutte le tappe, anche i rifiuti di accesso agli atti per le comunicazioni in mare dei ministri Danilo Toninelli e Paola De Micheli, anche la mancata risposta a un’interrogazione parlamentare di Matteo Orfini (Pd) nella quale si chiedeva conto di quanto accaduto e riportato dalla stessa Guardia costiera libica che, però, dava una sua versione dei fatti.
L’ora dei misteri, a questo punto, dovrebbe essere finita. E mentre a Napoli sta per partire un processo penale sul respingimento della Asso Ventotto, Sarita pensa alla cosa più importante: “Ora ci sono gli altri ‘deportati’ da trovare, finora ne ho rintracciati circa una sessantina, mentre due persone che potevano essere salvate sono state portate nel luogo che le ha uccise. Dove non ti portano cibo per due, tre, quattro e più giorni. E la cosa che mi amareggia è che sempre più spesso queste verità che riguardano la violazione dei diritti umani vengono fuori grazie al lavoro di persone ‘normali’, scrittori, attivisti, giornalisti e non solo, ma non di chi invece avrebbe il dovere di farlo”.