L'operazione "Golgota" della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro guidata dal procuratore Nicola Gratteri ha colpito le famiglie di Isola Capo Rizzuto e di San Leonardo di Cutro. Gli arresti sono stati eseguiti dalla polizia di stato di Crotone ma anche dal Servizio centrale operativo
Un’associazione mafiosa e tre associazioni a delinquere finalizzate al traffico di sostanze stupefacenti. L’operazione “Golgota” è scattata stamattina all’alba quando la Polizia di stato, nel crotonese, ha arrestato 36 persone. La Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, guidata dal procuratore Nicola Gratteri, ha colpito le famiglie di ‘ndrangheta degli Arena-Nicoscia di Isola Capo Rizzuto e Mannolo di San Leonardo di Cutro. In carcere è finito anche il boss Salvatore Arena, detto “Caporale”, figlio di Carmine Arena e nipote del capostipite don Nicola. In totale gli iscritti nel registro degli indagati sono 54.
La figura del boss arrestato stamattina era già emersa nell’operazione “Tisifone”. Con l’inchiesta di oggi, gli investigatori della questura di Crotone e dello Sco hanno chiuso il cerchio. Sono riusciti a fotografare il ruolo apicale di Salvatore Arena “nell’ambito dell’omonimo gruppo mafioso quale soggetto che – scrivono i magistrati – gestiva rapporti con altre cosche e impartiva direttive ai suoi affiliati, i quali vedevano in lui un punto di riferimento anche per la risoluzione di controversie tra di loro”. Il “Caporale” interveniva anche fuori dalla Calabria, in Lombardia dove la cosca Arena era rappresentata da Martino Tarasi, pure lui arrestato. Quando quest’ultimo, in provincia di Bergamo, ebbe una controversia con un pregiudicato di Isola Capo Rizzuto è stato Salvatore Arena a risolvere il problema.
“Tu fai conto che quando parli con lui stai parlando con me… non voglio arrivare che dobbiamo litigare tra paesani”. È la frase che, per difendere Tarasi, il “Caporale” avrebbe detto al pregiudicato Giuseppe Papaleo, il portavoce delle cosche mafiose reggine. Tarasi non era uno qualunque: secondo gli inquirenti è l’uomo che, per conto della cosca di Isola Capo Rizzuto, “deteneva armi, si occupava degli stupefacenti e, al fine, assicurava il raccordo tra il territorio isolitano e la provincia bergamasca, nella quale il sodalizio aveva interessi”. Per gli Arena, stando alle risultanze investigative, Tarasi investiva nel campo imprenditoriale acquisendo quote di società e diventando socio occulto di aziende in difficoltà, come la “PPB Servizi e Trasporti srl”, nelle quali la cosca investiva denaro che poi veniva utilizzato anche per fornire prestiti. Nell’ordinanza di custodia cautelare, il gip Filippo Aragona scrive che “è emerso un nuovo assetto del gruppo criminale derivante sia dall’arresto di alcuni suoi esponenti di vertice sia da un ricambio generazionale, mantenendo però al livello apicale una linea di continuità con i discendenti del boss Nicola Arena classe 1937”.
Coordinata dai sostituti procuratori Domenico Guarascio e Paolo Sirleo, inoltre, l’inchiesta ha fatto luce anche su tre associazioni finalizzate al traffico di sostanze stupefacenti: una guidata da Santo Claudio Papaleo, una da Antonio Astorino e una da Rocco e Giuliano Mannolo. Indagando sugli Arena, infatti, la Dda ha scoperto gli intrecci con le altre associazioni a delinquere che gestivano un fiorente traffico di droga che partiva dal territorio di San Leonardo di Cutro e inondava l’intera provincia, compresa Isola di Capo Rizzuto. Le tre associazioni riuscivano a muovere decine di chili di droga per tutta la penisola. Antonio Astorino era solito ricavare “scomparti occulti all’interno di autovetture, utilizzate anche per il trasporto al nord Italia di ingenti somme: 300mila euro per l’acquisto della droga”. A volte la comprava a Motta Visconti, in provincia di Milano dove Astorina “è registrato ana graficamente e dove aveva la disponibilità di un immobile, munito di garage”.
Grazie alle intercettazioni, gli investigatori hanno ricostruito i rapporti tra la cosca Mannolo e le altre organizzazioni criminali del crotonese. Rapporti che riguardavano la fornitura di cocaina e marijuana ma non solo. Durante l’inchiesta “Golgota” è emerso che gli indagati disponevano di numerose armi e, cosa ancora più inquietante, la capacità dei clan crotonesi di acquisire informazioni sulle indagini in corso. “Non avete idea di quanti omicidi abbiamo evitato in questi anni conducendo questa indagine. Dal 2018 ad oggi siamo intervenuti con azioni di ‘disturbo’ per impedire altri omicidi e altro sangue. Abbiamo dovuto sacrificare parte dell’indagine, ma abbiamo salvato delle vite. Oggi abbiamo tirato su la rete”. È il commento del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri nel corso della conferenza stampa che si è tenuta alla questura di Catanzaro. “In particolare – ha sottolineato il magistrato – ci sono imputazioni per associazione di stampo mafioso e per associazione dedite al traffico di stupefacenti, oltre a numerosi reati fine: i capi di imputazione sono 108, di cui 30 per armi. È stato un grande lavoro sul piano probatorio, un grandissimo lavoro fatto dalla Squadra Mobile di Crotone e da quella di Catanzaro coordinate dallo Sco di Roma”.