Dopo il conferimento dell’incarico a Mario Draghi sono tornati improvvisamente di moda John Maynard Keynes e soprattutto Federico Caffè. Economista de La Sapienza di Roma e consulente di banca d’Italia, Caffè fu uno dei più importanti esponenti della scuola keynesiana in Italia e con lui l’ex presidente della Banca centrale europea si laureò nel 1970. Si discute molto sul percorso intellettuale di Draghi che in alcuni frangenti della sua carriera è sembrato “deviare” dagli insegnamenti di uno dei suoi maestri. Peraltro non si ha notizie del fatto Caffé abbia mai fatto considerazioni in tal senso. Mario Draghi è intervenuto negli anni a numerose commemorazioni dedicate al “suo” professore. Federico Caffè è scomparso nel nulla il 15 aprile 1987, dieci anni più tardi ne è stata dichiarata la morte presunta. Nell’aprile del 2020 Millenium ha dedicato un approfondimento al pensiero dell’economista scomparso, al rapporto con i suoi studenti e al ritorno in voga dei suoi insegnamenti.

Siamo tutti Keynesiani. Se l’economia va a picco pure i liberisti invocano la mano pubblica

E così siamo (di nuovo) tutti keynesiani. Il coronavirus, certo. Ma l’emergenza non ha fatto altro che dare una drammatica accelerazione a un cambio di umore in atto da tempo. Quando il gioco si fa duro, i liberisti smettono di giocare e cambiano casacca. Perché il mercato va bene quando bisogna accaparrarsi la fetta più grossa dei profitti ma non quando le cose vanno male. Le perdite è meglio condividerle tutti insieme e farsi aiutare dalla mano (visibile) pubblica. Il coro di supplica ai governi durava già da mesi e tra le voci si sono distinte le più insospettabili: banche d’affari, associazioni di industriali, società di investimento, imprenditori, editorialisti fino a ieri iper liberisti. Da mesi non si legge report che non implori un’azione dei governi e investimenti pubblici a sostegno della crescita. Folgorati dalla scoperta che la politica monetaria delle banche centrali, da sola, non basta.

Ridotta all’osso, la differenza chiave tra il pensiero keynesiano e quello della scuola neoclassica liberista riguarda la capacità dei mercati di autoregolarsi. Ossia di raggiungere e mantenere un equilibrio produttivo che impieghi tutte le risorse disponibili, compresa la manodopera, assicurando così la piena occupazione. Secondo i neoclassici questo è possibile, anzi, ogni ingerenza esterna compromette la capacità del libero mercato di creare ricchezza. Secondo i keynesiani no, e quindi, in determinate circostanze, serve un intervento pubblico per rimettere le cose a posto. Può sembrare una piccola cosa ma, in concreto, decidere se lo Stato debba avere un ruolo attivo nella gestione dell‘economia comporta conseguenze di grande portata.

Sfatiamo subito alcuni luoghi comuni. Keynes non è mai stato un sostenitore della spesa pubblica facile. Nessuno ha mai pensato che il deficit sia la ricetta per una facile felicità. Tutti sanno che “in economia non esistono pasti gratis”. L’economista inglese sapeva bene che le spese introdotte per le emergenze rischiano di diventare permanenti e quindi auspicava l’obbligo di pareggio di bilancio. I soldi che il governo si faceva prestare, emettendo titoli di Stato, per stimolare l’economia avrebbero dovuto essere restituiti appena la ripresa si faceva sentire grazie all’aumento delle entrate fiscali. Non era contrario ai tagli alle tasse e all’immissione di moneta nell’economia, soltanto li riteneva meno efficaci contro le crisi, rispetto a piani di investimenti pubblici. Con il loro approccio pragmatico, gli Stati Uniti sono stati forse il Paese che più ha seguito questi dettami. L’alfiere politico della scuola neo liberista, Ronald Reagan, entrò alla Casa Bianca con gli Usa che erano il maggior creditore al mondo ne uscì che erano il primo debitore. Il democratico Bill Clinton approfittò degli anni di crescita per azzerare il disavanzo. Nel 2008, prima con il repubblicano George Bush, poi con il democratico Barack Obama, ci furono massicci interventi di sostegno pubblico all’economia. Per l’emergenza coronavirus il repubblicano Donald Trump valuta ora uno stanziamento di due mila miliardi di dollari.

Il prezzo dell’epidemia – Con un’economia stritolata dalla doppia contrazione di offerta e di domanda, l’epidemia farà levitare debiti e deficit in tutto il mondo, lascerà un lungo strascico di salvataggi pubblici e la presenza dello Stato in molte aziende. Il dopo andrà gestito con accortezza, ispirandosi a solidi principi guida. Per l’Italia, che già sopporta un debito pubblico elevato, una sfida particolarmente impegnativa. Il problema non sono solo i numeri della nostra finanza, ma anche una cultura di governo che non ha mai davvero recepito la lezione keynesiana. Qui hanno attecchito solo sgangherati scimmiottamenti delle dottrine, che si sono spesso tradotti in una spesa per la spesa e in un dissennato spreco di risorse. Dopo il boom di spesa pubblica degli anni Ottanta, di natura più clientelare che anti-ciclica, i conti non sono più tornati davvero in ordine. Magagne che erano ben note a chi ha invece dedicato una vita intera a cercare di calare, con serietà e rigore, le idee di Keynes nella specifica realtà italiana. Quel Federico Caffè, scomparso nel nulla il 15 aprile del 1987, e che già mezzo secolo fa ragionava di come in Italia le politiche keynesiane non avessero mai avuto cultori a livello governativo, e di come le cose fossero «andate come sono andate, un po’ nel segno della totale confusione, un po’ nel segno del liberalismo einaudiano, un po’ secondo le logiche clientelari dei vari notabili che di volta in volta, a gruppi o isolati, hanno fatto prevalere le proprie scelte e il proprio tornaconto».

La lezione di Caffè – In un intervento su L’Ora di Palermo del 1986, Caffè ricorda che «a partire dal 1944, vi è sempre stata nel nostro Paese una politica economica potenziale che avrebbe potuto essere realizzata, verosimilmente con maggior vantaggio per la collettività», come a ribadire, ormai è andata così ma sarebbe potuta andare diversamente e meglio. Ermanno Rea nel suo bel libro L’Ultima lezione, rammenta come Caffè liquidasse come ridicola l’idea che nel sistema italiano avessero attecchito elementi di socialismo. Lo Stato fu presente nella vita economica italiana, spiegava l’economista, soltanto per tamponare le falle o mantenere in vita aziende non remunerative rifiutate dai privati. Il Paese è ammaliato dalle istanze de-regolamentatrici ma «è sprovvisto di validi argini nei confronti delle forme più vistose di fallimenti di mercato». Non che auspicasse uno Stato sul modello del socialismo alla sovietica. Come Keynes, Caffè era profondamente refrattario agli autoritarismi, ad uno Stato invasivo.

Di questi tempi sarebbe consigliabile per la nostra classe politica rileggere (o leggere) quello che professava la scuola di Caffè. Una scuola di cui facevano parte economisti del calibro di Fausto Vicarelli ed Ezio Tarantelli e che ha formato un’intera generazione di studenti, a cominciare dall’ex presidente della Banca centrale europea Mario Draghi. La prima lezione da apprendere è l’assoluto rigore etico con cui gestire le finanze statali. «Non sono certo un fautore della disavanzo e delle società pubbliche con i libri mastri in rosso», scriveva Caffé, aggiungendo «e tuttavia mi chiedo che cosa può importare se determinati servizi siano o non siano in pareggio (…) quando si attaccano i servizi sociali non ci si rende conto del guadagno realizzato da tutte la collettività». Parole attualissime. La stella polare dell’economista de La Sapienza era il bene pubblico prima del profitto, una severissima cultura del bene pubblico.

«Il pieno impiego non è soltanto un mezzo per accrescere la produzione e intensificare l’espansione» scrive «è un fine in sé, poiché porta al superamento dell’atteggiamento servile di chi stenta a procurarsi un’opportunità di lavoro, o ha il continuo timore di esserne privato. In altri termini, i vantaggi di una situazione di pieno impiego non vanno considerati sul piano produttivo ma anche, e soprattutto, su quello della dignità umana». Qual è quindi, in ultima analisi, il ruolo dello Stato secondo Caffé? Quello di perseguire il bene collettivo, stemperare gli eccessi del mercato e correggerne gli errori. Chi amministra la cosa pubblica si muove su un crinale estremamente sottile, scivolare nel baratro del clientelismo e della spesa inefficiente è sin troppo facile. Per questa ragione impegno e rigore devono essere assoluti. L’Italia è sempre stata deficitaria in tal senso ma riuscire a correggersi rischia ora di diventare una questione di vita o di morte.

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