Gran parte della stampa nazionale afferma, esultando: Draghi parte dalla scuola. L’uomo della provvidenza ripropone quel mantra benevolo – ma che il più delle volte si è concretizzato in nulla, quando non in un peggioramento delle condizioni preesistenti – cui tutti i governi liturgicamente ricorrono.
Bisogna intendersi, innanzitutto. Sono affermazioni reali, quelle alle quali in questi giorni si fa riferimento? Ipotizziamo che sia così. Se i punti che vengono messi in rilievo – maturità “robusta”, lezioni fino al 30 giugno, test Invalsi, selezione rapida di nuovi docenti, PCTO (ex alternanza scuola-lavoro) – c’è innanzitutto da chiedersi: cos’è la scuola (per Draghi)?
Non è evidentemente il luogo in cui (dal febbraio scorso in alcune regioni, da marzo in altre) migliaia di docenti hanno cercato di reinventarsi un ruolo e una funzione, immettendo energie e professionalità nella difficilissima impresa di tener vivi nei propri studenti impegno, curiosità, serietà, di determinare apprendimento nonostante condizioni proibitive e inedite. Inizialmente (e per ben 3 mesi e mezzo) tutti in didattica di emergenza (a distanza); poi ciascuno secondo le decisioni dei sedicenti “governatori”, a marce diverse, in condizioni differenti, a seconda dell’ordine di scuola: tutti in classe i più piccoli – ma con alcune eccezioni -, con percentuali più o meno numerose di studenti in parte della secondaria di I grado e in quella di II grado, quest’ultima con gli alunni per due mesi autunnali ancora a casa, dietro un computer. Dopo le vacanze natalizie ritorni scaglionati, regione per regione, ancora con numeri variabili in aula, gli altri a casa.
Un anno vissuto pericolosamente. Le conseguenze didattiche sono difficilmente quantificabili, enormi quanto quelle psicologiche e relative alla percezione che della scuola giovani in formazione possono avere. In questo caos (non) calmo, la soluzione di Draghi può mai essere tanto ingenua e banale da ritenere il prolungamento di 3 settimane di lezione la risposta adeguata? E ancora: possono essere i test Invalsi e il PCTO (tanto cari, però, a Confindustria, Fondazione Agnelli e soliti noti) una priorità? La disgregazione dettata dalla gestione dissennata e autoreferenziale che le regioni hanno portato avanti nella scuola, come nella sanità, deve essere oggetto di una riflessione puntuale, per rispondere alle pretese regionali ad annettere tra le materie a propria esclusiva legislazione la stessa istruzione, così come la sanità. Si parla, cioè, del devastante progetto di autonomia differenziata.
La questione delle cosiddette classi-pollaio, sull’abolizione delle quali diversi partiti e movimenti hanno costruito campagne elettorali, risultata l’elemento più critico nella gestione della pandemia nella scuola, continua ad essere ignorata; programmare un organico che consenta una ripartizione del rapporto alunni docente notevolmente ridimensionato, questo sì sarebbe un segnale forte e chiaro. Nel nostro Paese, infine, esiste un mostruoso, enorme problema di edilizia scolastica, ancora una volta amplificato dalla tragedia della pandemia. “Ripartire dalla scuola” disconoscendo la centralità di questi temi (attenendoci esclusivamente a quelli immediatamente evidenziati dalla crisi Covid-19, molti altri sono urgentissimi) significa non sapere cosa è veramente la scuola, come istituzione della Repubblica e come luogo dell’esercizio e della garanzia della libertà di insegnamento e di apprendimento, come motore del progresso del Paese e dell’emancipazione delle persone.
Se le uscite del presidente del Consiglio incaricato fossero vere, si evidenzierebbe sin dalle prime battute una conoscenza imprecisa e fortemente ideologica del mondo della scuola e della professionalità dei docenti, come del resto prova il plauso entusiasta dei tanti – troppi – perenni critici del “fannullonismo” degli insegnanti, soddisfatti delle ipotetiche promesse punitive. C’è un punto, però: i docenti delle scuole dell’infanzia, primaria e gran parte della secondaria di I grado hanno lavorato in presenza nel corso dell’attuale anno scolastico. Vorrebbe forse dirci, il prof. Draghi, che quello che si è fatto in didattica a distanza (e alternativamente in presenza) nella secondaria di II grado non è (stato) lavoro? Un lavoro duro e intenso, invece, che non ha sostanzialmente previsto orari e pause, portato avanti con un’unica intenzione: mantenere viva negli studenti e nelle studentesse l’idea della Scuola, mentre al governo si declinavano responsabilità e si acquistavano – con i fondi della fiscalità generale – inutili banchi a rotelle. Una prova di responsabilità che tutto il mondo della scuola ha inequivocabilmente dato, con dignità e professionalità.
O forse l’idea di scuola di Mario Draghi è quella di sostituire ad un modello costituzionalmente determinato uno ulteriormente neoliberista, aziendalista, meritocratico, “invalsicentrico”, secondo i criteri che Fondazione Agnelli, Confindustria, Compagnia delle Opere stanno da anni portando avanti con discreto successo? La cosa – considerato il cursus honorum di Draghi – non desterebbe sorpresa. Non sfugga, a questo proposito, il favore con cui l’Anp (associazione nazionale presidi) ha accolto le indiscrezioni, riprofilandosi la possibilità (già introdotta dalla sedicente Buona Scuola di Renzi) della chiamata diretta da parte dei dirigenti. E la convinta apertura di credito che Maurizio Landini ha espresso a favore dell’uomo della provvidenza: sic transit gloria mundi.
Attendiamo con ansia la nomina del ministro e il programma di governo. E che il sindacato riesca a ricordare il proprio ruolo in un paese democratico e sensibile alla dignità e ai diritti del lavoro, nonché alla funzione di spina dorsale della Repubblica che la scuola pubblica ha.