L’altra sera mi sono trovato alla rassegna stampa serale di RaiNews, gestita da una brava collega, Emanuela Bonchino, a interloquire con Livio Gigliuto, sociologo di formazione, vice-presidente dell’Istituto Piepoli, direttore dell’Osservatorio nazionale sulla comunicazione digitale. E lì ho scoperto – sondaggi alla mano – che gli italiani, che nelle elezioni del 2018, manco tre anni or sono, preferirono in modo massiccio quelli che non avevano un curriculum a quelli che ne avevano uno, cioè gli incompetenti ai competenti, e scelsero populisti e sovranisti più che rigorosi ed europeisti, invocano, adesso, la competenza e la preparazione. E hanno pure riscoperto l’Europa: chi lo sa, forse è il primo amore che non si scorda mai; o, forse, è il profumo dei soldi. La seconda che ho detto, mi sa.
Effetto Draghi? O è Draghi l’effetto dell’evoluzione repentina dell’opinione pubblica? E’ la storia dell’uovo e della gallina. Fatto sta che, sperimentata l’incompetenza, siamo tornati – pare – al culto della competenza (fino al prossimo giro). Ma non solo: siamo ridiventati un popolo di europeisti, come eravamo stati a lungo prima di trasformarci, seguendo pifferai magici diversissimi fra loro, alla Grillo o alla Salvini, in euroscettici e sovranisti. Cioè loro, i pifferai magici, hanno cambiato parole e musica; e noi, diligenti cittadini di Hamelin, li stiamo seguendo.
Intendiamoci, meglio ora che prima, quando, dietro a quelli lì, eravamo tanti lemmings che andavano a gettarsi nel burrone; almeno, stavolta la direzione è buona, anche se le motivazioni dei pifferai sono opportunistiche, soldi da gestire, posizioni di potere, calcoli elettorali.
In questo contesto, non c’è da stupirsi che l’Unione europea guardi più attonita che preoccupata all’Italia, che s’è andata a sprofondare in una crisi di governo dopo che l’Ue aveva deciso di darle 209 miliardi di euro per rimettere in sesto un Paese indietro su tutti i fronti, infrastrutture, istruzione, disuguaglianze. Le sole classifiche in cui l’Italia compare in testa nell’Unione sono quelle negative, il debito, la disoccupazione, la lentezza della crescita (e la rapidità della decrescita, in tempi di pandemia). Anche il coronavirus ha fatto più vittime in Italia che in tutti gli altri Paesi Ue – la Gran Bretagna ci è davanti, ma è ormai fuori; e corre più di noi con i vaccini.
Il problema non è che ci sia una crisi di governo: ce n’è una in atto in Olanda e nessuno a Bruxelles, che pure è a un tiro di schioppo dall’Aia, si sta strappando i capelli. E non era neppure che ci potessero essere delle elezioni: in Portogallo s’è votato per il presidente, che lì è scelto dal popolo; in Olanda si voterà a marzo; in Germania, che è la Germania, si sta per votare nei Länder più popolosi e, a settembre, per eleggere il nuovo Bundestag e determinare il nuovo cancelliere.
Il problema è che ciò avviene in Italia, dove il dibattito che imperversava non riguardava che cosa fare e come farlo, per uscire dall’emergenza sanitaria, rimettere in moto l’economia, recuperare i ritardi; ma i nomi, i mix delle alleanze, le alchimie dei rimescolamenti, la sopravvivenza di sigle, formule, personaggi. Poi, dal cilindro del presidente della Repubblica Sergio Mattarella è uscito il nome, né inatteso né magico, di Mario Draghi e tutto è improvvisamente cambiato: i lupi sono diventati agnelli; quelli che ‘mai insieme’ si sono scoperti compatibili; quelli de “l’Europa matrigna” si sono avvolti nella bandiera blu con le 12 stelle giallo cromo.
A Bruxelles, l’Italia non è sotto-rappresentata – anzi – e da Bruxelles viene un’attenzione informata e partecipe al nostro Paese. Nonostante le diffidenze, oggettivamente non ingiustificate, dei Paesi cosiddetti frugali, tutti ‘ufficiali pagatori’ – ci mettono più soldi di quanti non ne ricevano. E nonostante l’anomalia, fino a ieri, d’un premier trasformista che il giorno prima sventola le bandiere del populismo e del sovranismo e il giorno dopo indossa i panni dell’europeista – tiepido, seppur compito.
Le Istituzioni e i Grandi dell’Unione, la Germania e la Francia, hanno mostrato solidale generosità all’Italia, consapevoli – più di noi, temo – che l’Ue può fare a meno della Gran Bretagna, ma non dell’Italia, che ne è Paese fondatore e tassello portante nel mosaico europeo e mediterraneo; e anche e soprattutto che senza l’Unione la Gran Bretagna sta a galla, ma l’Italia va a fondo. E nessuno lo vuole né se lo può permettere.
L’Ue si aspetta un governo che faccia buon uso dei suoi aiuti, nell’interesse dell’Italia e dei suoi partner, non solo di esponenti di una casta o di una fazione politica o di una componente sociale o di un’area geografica. L’Ue si fida di Draghi, certo; meno del caravanserraglio che gli sta intorno.