La sentenza del Tribunale del lavoro di Taranto obbliga l'azienda a versare la differenza, ma soprattutto - fa notare la Cgil - è uno "spartiacque tra una prassi consolidata nelle cooperative sociali del terzo settore e il diritto dei lavoratori". Le due dipendenti aveva denunciato la violazione degli accordi. Il giudice ha spiegato che "la pattuizione di un determinato orario di lavoro circoscrive il periodo entro il quale tale prestazione deve essere resa, senza possibilità di variazione unilaterale”
Denunciò le violenze a cui aveva assistito nella casa dove prestava assistenza domiciliare a una persona ammalata e di tutta risposta le è stato decurtato lo stipendio. È accaduto a Taranto a una donna, Tina Bianco, assunta da una cooperativa che dopo la segnalazione della donna ridusse il suo monte ore di lavoro e che ora il Tribunale del lavoro ha condannato stabilendo che non si può scaricare sui dipendenti il “rischio di impresa”. La sentenza, emessa dal giudice Raffaele Ciquera, ha inoltre condannato la stessa cooperativa a risarcire anche un’altra dipendente, Tina Spalluto, che per anni aveva offerto assistenza domiciliare a una persona ammalata fino alla morte di quest’ultima: da quel momento, anche a lei, l’azienda aveva tagliato le ore lavorative e quindi lo stipendio per la “perdita di un cliente”.
Entrambe le donne, però, scelsero di denunciare queste ingiustizie rivolgendosi alla Cgil di Taranto che ha affidato le due vertenze all’avvocato Luca Bosco che è riuscito a dimostrare come l’impresa abbia violato gli accordi con le proprie dipendenti. Il giudice nella sua sentenza, ha infatti spiegato che, “la prestazione dovuta dal lavoratore subordinato è quella di obbligarsi a collaborare nell’impresa col proprio lavoro alle dipendenze altrui e che la pattuizione di un determinato orario di lavoro circoscrive il periodo entro il quale tale prestazione deve essere resa, senza possibilità di variazione unilaterale”.
Insomma il datore di lavoro non può modificare i termini del contratto, come il monte ore stabilito all’atto della firma, compromettendo la stabilità economica e lavorativa del dipendente. “La pattuizione della sospensione (anche in parte) della obbligazione retributiva a carico del datore di lavoro in caso di modificazione del servizio di assistenza da parte del committente – ha scritto infatti il magistrato – si risolve nel far gravare sul lavoratore subordinato i rischi di impresa e si pone fuori dallo schema della sospensione concordata, in quanto pattuita in via preventiva e in relazione ad eventi incerti: tale pattuizione si pone con contrasto con la normativa che richiede, al contrario, una puntuale e specifica indicazione della durata della prestazione lavorativa”.
La riduzione, quindi, di quegli stipendi che non superavano neppure i 400 euro mensili sono stati un errore a cui la cooperativa dovrà porre rimedio. “La sentenza – ha commentato l’avvocato Bosco – ha certamente una valenza economica, ma soprattutto è importante perché afferma un principio chiave: il datore di lavoro non può scaricare sui lavoratori il proprio rischio di impresa”. Per Tiziana Ronsisvalle, della Fp Cgil Taranto, la decisione del giudice “segna uno spartiacque tra una prassi consolidata all’interno delle cooperative sociali del terzo settore e il diritto dei lavoratori di vedersi riconosciuto invece quanto previsto dal contratto di lavoro”. Questo modus operandi, secondo l’esponente sindacale, veniva utilizzato “in modo unilaterale a volte anche in termini punitivi nei confronti dei lavoratori che provavano a denunciare o chiedere conto di pratiche poco chiare”.
Per il segretario generale di Cgil Taranto, Paolo Peluso, è una sentenza epocale. Infine Lorenzo Caldaralo, segretario generale della Fp Cgil, ha chiarito che “non è possibile che i servizi alla persona, ai più deboli, vengano trattati con questa superficialità, considerato che le risorse sono pubbliche e di fronte a denaro pubblico occorre preservare non solo la dignità degli assistiti, la qualità del servizio reso loro, ma anche la dignità di lavoratori che spesso sono costretti ad operare in condizioni di estremo disagio, oppure eternamente ricattati. Ecco perché pensiamo che questo genere di attività, così come quella del servizio di igiene ambientale, vadano rese di servizio pubblico e non affidate al mondo del privato. È una battaglia – ha aggiunto il sindacalista – a cui questa sentenza dà il suo importante contributo”.