E’ morto questa mattina a Napoli Paolo Isotta, una delle più autorevoli voci della musicologia italiana. Autore di alcuni dei più importanti saggi sui massimi compositori italiani, da Paisiello a Rossini, da Donizetti a Verdi, Isotta aveva 70 anni ed era professore emerito del Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli. Era stato per tantissimi anni il critico musicale del Corriere della Sera. Scrittore e musicologo, dal 2015 scriveva per il Fatto Quotidiano. Dal 2018 aveva aggiunto anche la collaborazione con Libero. Era una delle più autorevoli voci italiane della critica musicale e della musicologia.
Scrittura pungente, spirito libero, libertario (era iscritto al partito radicale e all’associazione Coscioni), lo humour sferzante sempre come strumento dialettico, sterminata cultura ed erudizione. E un carattere vulcanico che lo portò a una sorta di espulsione dal teatro alla Scala per un pezzo con cui veniva criticato il direttore d’orchestra Daniel Harding e indirettamente il maestro Claudio Abbado. Più precisamente, scrivendo di un concerto della Filarmonica scrisse: “Daniel Harding ha una precisa tecnica direttoriale, a differenza del celebre suo mentore, non Simon Rattle, dico, ma Claudio Abbado, onde è un vero direttore, magari un cattivo direttore ma un vero direttore”. Così il sovrintendente Stéphane Lissner lo dichiarà “persona non gradita”, come si fa con i diplomatici quando vengono allontanati da una cancelleria. In quel caso Isotta ebbe un avvocato di fiducia non da poco, il direttore Ferruccio de Bortoli: “Chi scrive, al contrario del suo critico, ama entrambi i direttori d’orchestra, l’allievo e il maestro, ma ha sempre ritenuto e ritiene che la libertà di critica sia sacra purché non scada mai nei toni e nei contenuti”. Pietrangelo Buttafuoco tempo fa lo raccontava così: “Osserva i suoi doveri di critico con pedanteria e originalità, dedicando ampie pagine introduttive alle prime esecuzioni assolute o ai capolavori dimenticati e riportati a nuova vita. Per quanto sia il più famoso critico musicale europeo, gli duole che presso taluni lo si presuma più una natura polemica che non gli si riconoscano dottrina e amore per la musica“.
Isotta era entrato nel mondo della musica da musicista diplomato al conservatorio e poi dagli inizi degli anni Settanta, a 21 anni, come professore nei conservatori: prima Reggio Calabria, poi Torino, infine Napoli. Lasciò la cattedra a metà degli anni Novanta “per progressiva intolleranza verso gli allievi attuali”. Fu nel 1974 che diventò critico musicale: la prima volta fu il Giornale di Indro Montanelli. E’ in questi anni che, racconterà Buttafuoco, fu così severo col baritono Renato Bruson che “questi, incontratolo in un teatro, cercò seriamente di strozzarlo; il critico fu salvato da due attrezzisti”. Al Corriere della Sera Isotta arrivò nel 1980. Si racconta che non fu presa benissimo dal mondo della cultura, a tal punto che per riscuotere lo stipendio non poteva presentarsi in via Solferino, ma un dirigente dell’azienda gli portava la busta paga direttamente a casa.
In un suo ritratto si definiva la lettura a una droga: “Tacito, Gibbon, Manzoni, Flaubert, Pirandello, Virgilio, Baudelaire, Pascoli italiano e latino, Benn, Trakl, Eliot. Profondamente devoto a San Gennaro, non sopporta la folclorizzazione e la rappresentazione pittoresca della cosiddetta napoletanità. Osserva un culto parimenti rigoroso quanto ereditario per Totò e Peppino“. Napoletano, papà avvocato civile “ritiratosi piuttosto presto dalla professione col sostenere che gli era sempre più difficile trovare argomenti di così basso livello da esser comprensibili dall’ignoranza dei magistrati di oggi”, grande conoscitore di musica classica e lirica. “Tremavo – racconterà – quando gli vedevo in mano il Corriere della Sera, del quale ero critico musicale, nei giorni che portava un mio articolo. Mi sentivo un impostore smascherato dai suoi silenzi”. Il papà gli consigliò di fare l’avvocato perché “in tal mestiere” c’è posto “anche per i mediocri, nella musica o si tocca l’eccellenza o si è un fallito. Il mio più gran rimpianto è non averlo ascoltato: oggi, con la mia intelligenza, la mia memoria, il rispetto acquisito per il lavoro ben fatto, sarei un professore di Diritto civile e i grandi clienti verrebbero da me col cappello in mano. Sono invece un impiegatuccio che dipende dal buon volere dei superiori”. Uno di loro, Luciano Fontana, fu tra i motivi per cui lasciò definitivamente il Corriere nel 2015. E anche quella volta furono mortaretti, tricche tracchi e castagnole: “Col presente articolo – scrisse nell’ultimo pezzo – si chiude la mia attività di critico musicale svolta per più di quarantadue anni; sul Corriere della Sera da trentacinque. L’ho esercitata con totale libertà; onde ringrazio i direttori che, succedendosi, me l’hanno concesso, da Franco Di Bella a Ferruccio de Bortoli“. Ma manca Luciano Fontana, gli fece notare Domenico Naso in un’intervista a ilfattoquotidiano.it: “Si tratta di un soggetto così scadente sotto ogni profilo che persino il non nominarlo è fargli onore”.
Tra i suoi libri I diamanti della corona sulle opere serie di Gioachino Rossini, primo libro sul tema (in un periodo, i primi anni Settanta, in cui Rossini faceva ancora a fatica a tornare “di moda”), Il ventriloquo di Dio sull’influenza della musica nelle opere di Thomas Mann, i libri su Victor De Sabata compositore (Victor De Sabata: un compositore) e su Renata Tebaldi per i suoi ottant’anni. L’ultimo è stato Verdi a Parigi. Là dove nacque l’ispirazione della Traviata.