Ma come sarà costruito e chi guiderà il futuro ministero per la Transizione ecologica? E come fare perché questa iniziativa ambiziosa non si risolva in un flop in un paese nel quale, dopo più di due anni di ministri di area grillina a Sviluppo economico e Ambiente, siamo ancora uno dei luoghi in cui è quasi impossibile installare rinnovabili?
In un paese nel quale si vive nell’illusione di diventare un “hub del gas” (che emette CO2), si fanno dipendere scelte strategiche di politica estera dall’Eni, ci siamo fatti fregare da Arcelor Mittal perché non c’è chiarezza su che si vuole fare con Ilva? In un paese nel quale si spendono ogni anno più di 19 miliardi di euro in sussidi ambientalmente dannosi, si sono pagati alla Ue più di 600 milioni di euro in multe per infrazioni dal 2011, si mantengono circa 7 milioni di persone in zone altamente inquinate e altrettante a grave rischio idrogeologico o di inondazioni? Nella definizione di questo Ministero è utile dare un’occhiata a chi ha provato a metterlo in piedi, con ambizioni simili, in altri paesi.
Il più completo è sicuramente il Ministero per l’azione climatica, l’energia, i trasporti, l’industria, l’innovazione tecnologica in Austria. Retto da una ambientalista di grande esperienza e prestigio, Leonore Gewessler, è il risultato della divisione dei compiti fra Verdi e conservatori di Kurz, nella bizzarra coalizione che governa quel paese e che ha portato l’Austria all’avanguardia nelle politiche climatiche ed energetiche, ma la fa anche restare nel campo dei “frugali” (o avari) e di quelli ferocemente opposti a ogni politica attiva in materia di migrazione in Europa.
Comunque, sicuramente l’Austria dispone di una delle più coerenti e ambiziose politiche per il clima, che tocca tutti i settori, dai trasporti, all’energia e all’industria con un occhio all’innovazione. La chiave è, insomma, quella di una chiara impostazione “gerarchica” che non permette competizioni fra dicasteri di eguale importanza e che potrebbero tirare in direzione opposta.
In Spagna è un’altra donna molto esperta e intraprendente, Teresa Ribera, che è anche vice primo ministro, a reggere il ministero della Transizione ecologica e della “sfida demografica”, intesa qui come la lotta allo spopolamento e abbandono delle zone rurali della Spagna. Comprende l’energia e l’ambiente, mentre mobilità e agenda e urbana sono nel ministero dei Trasporti. Grande sostenitrice delle rinnovabili come volano indispensabile della trasformazione verde, è riuscita a invertire la tendenza e riportare la Spagna ai primi posti nella spinta alle nuove fonti di energia, togliendo i costi per il loro sostegno dalle bollette e trasferendoli in un fondo alimentato per di più dai fornitori in base alle vendite di energia.
Allo stesso tempo, le recenti aste per la vendita di permessi di installazione sono andate a ruba in Spagna, mentre da noi solo in pochi si sono fatti avanti; si è comunque trovata in difficoltà recentemente a causa del prezzo dell’energia, ancora modellato su quello del gas, che garantisce ingenti profitti alle grandi imprese produttrici mantenendo un costo troppo elevato per i consumatori piegati dalla gravissima crisi economica. Il rapporto con le grandi imprese rimane un punto dolente anche in Spagna, pur se il governo è molto più chiaro e coerente che da noi rispetto alla scelta della decarbonizzazione.
Il caso francese è molto interessante. Emmanuel Macron era riuscito, all’inizio del suo mandato, a convincere l’ecologista superstar Nicolas Hulot, affidandogli il ministero della Transizione ecologica e solidale, potentissimo sulla carta, responsabile per l’ambiente, l’energia, il clima, i trasporti, l’economia circolare, con un bilancio che è oggi di oltre 48 miliardi di euro, senza contare il Piano di Rilancio e Resilienza. La Francia è peraltro un paese in cui la consapevolezza della sfida climatica e del suo potenziale di trasformazione positiva è molto forte, a differenza che da noi, dove la scelta di Mario Draghi è stata letta come un piccolo trucco per ottenere il sostegno dei 5 stelle.
Recentemente la giustizia ha condannato lo Stato per inazione climatica dopo una campagna, “Affaire du siecle”, costruita con decine di avvocati e che ha coinvolto milioni di persone. Macron stesso ha fortemente voluto la Convenzione cittadina per il clima e molte città importanti, da Lione, a Bordeaux, Strasburgo, Besançon sono governate da coalizioni guidate dai Verdi. Eppure, un anno dopo la sua nomina nel 2018, Hulot con una drammatica intervista radio si è improvvisamente dimesso, denunciando la pervasività e il potere delle lobby industriali e l’impossibilità reale di realizzare il suo programma di decarbonizzazione. Non si poteva accontentare di “piccoli passi”, vista la situazione di estrema urgenza climatica, e necessitava dell’appoggio politico forte di tutto il governo e in particolare del Presidente; oggi il Ministero è in mano a Barbara Pompili, una transfuga dai Verdi, che ha uno spazio di manovra molto più ridotto in un governo che ha svoltato decisamente a destra.
È molto chiaro, dunque, che l’idea di un ministero per la transizione ecologica che in Italia porterà verosimilmente alla riorganizzazione del ministero dello sviluppo economico, del ministero dell’ambiente e forse del ministero delle infrastrutture presenta rischi e opportunità.
Rischi perché il Mise, purtroppo ancora costituito da una amministrazione che si è formata in buona parte nell’era dei fossili, a stretto contatto con imprese che erano di Stato come Eni e Enel e con i settori industriali pesanti, ha considerato per anni le rinnovabili come un costoso giochetto e la Green economy come uno slogan. Per non parlare del Mit, dove brillano gli occhi per le “grandi opere” (leggi Tav e autostrade) e non molto per manutenzione, sicurezza, trasporti pubblici.
Il ministero dell’Ambiente ha perso negli anni competenze e soprattutto fondi, diventando, nei mercanteggiamenti della formazione dei governi, un dicastero minore da dare come premio di consolazione a persone non particolarmente esperte o in grado di esercitare peso e influenza forti negli equilibri di governo: tanto per capirci, il ministero dell’Ambiente italiano disponeva di un bilancio di quasi 2 miliardi nel 2001 e oggi arriva a malapena a 790 milioni di euro.
Ma questa scelta rappresenta anche una grande opportunità perché mette al centro la responsabilità del governo nella sfida ai cambiamenti climatici: un Ministero seriamente attrezzato potrà rendere più coerente e fluido un processo decisionale che oggi è spezzettato tra vari ministeri che hanno priorità e orientamenti divergenti nei quali, tra l’altro, le ragioni dell’ambiente e del clima sono tradizionalmente più deboli.
Le esperienze europee e la situazione italiana ci dicono, dunque, che ci vorrà un peso veramente massimo in termini di competenze, di visione, di capacità organizzativa, di mediazione e persuasione politica perché questo Ministero sia in grado di resistere alle pressioni e agli interessi fossili che stanno frenando la trasformazione in chiave sostenibile dell’Italia e che mirano a far continuare all’infinito una “transizione” che sperano di potere controllare il più a lungo possibile.