L'atto di citazione del gruppo di naufraghi è stato possibile grazie al sostegno dell'Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e Amnesty International. I cinque fanno parte del gruppo di circa 270 persone soccorsi in mare e riportati in Libia il 2 luglio 2018 da una nave della Augusta Offshore spa. Secondo le associazioni, a coordinare le operazioni c'era però la Marina militare italiana di stanza a Tripoli
Ci sono documenti forniti dalla Augusta Offshore che proverebbero il ruolo di coordinamento delle autorità militari italiane di stanza a Tripoli nel respingimento di circa 270 migranti, condotti in Libia il 2 luglio 2018, a bordo della nave Asso Ventinove della società napoletana. E se le autorità italiane negano questo coinvolgimento, stavolta proprio la società privata (che per una vicenda simile, quella della Asso Ventotto, sta già affrontando un altro procedimento) conferma di aver preso ordini dalla Marina militare. Portando a termine un intervento che, tra le altre cose, ha impedito ai profughi di presentare le domande di asilo “in violazione della Convenzione di Ginevra e dell’articolo 10 della Costituzione italiana” nella piena consapevolezza degli abusi e delle violenze che avvengono nei centri di detenzione libici. La storia, raccontata da ilfattoquotidiano.it e portata alla luce in primis dall’attivista e blogger Sarita Fratini e dal collettivo di cui è portavoce, ‘Josi e Loni project’, è ora al centro di un procedimento civile avviato, con il sostegno dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e Amnesty International, da cinque cittadini eritrei, due uomini e una coppia con il proprio bambino nato pochi giorni dopo il loro ingresso in uno dei centri di detenzione per migranti, a Zintan.
LA VALENZA POLITICA – Con il deposito dell’atto di citazione nei confronti del capitano della Asso Ventinove, dei ministeri della Difesa e dei Trasporti e della Presidenza del Consiglio dei Ministri si chiede che venga dichiarato illegittimo il respingimento, ma si apre anche una vicenda dal risvolto politico, come sottolineato nel corso di una conferenza stampa organizzata dalle associazioni. Non si mira solo a un risarcimento economico, ma anche a far luce sulle prassi adottate nel Mediterraneo, anche dopo la storica sentenza del 2012 sul caso ‘Hirsi Jamaa e altri’ (e da verdetti successivi) con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato il nostro Paese per aver espulso collettivamente 200 naufraghi intercettati a 35 miglia a Sud di Lampedusa nel maggio 2009. “Le autorità italiane hanno sempre negato coinvolgimenti in interventi di questo tipo ma, a questo punto, bisogna chiedersi se non sia una prassi far fare il lavoro sporco ad altri” spiega a ilfattoquotidiano.it Ilaria Masinara, di Amnesty International Italia. “Anche perché – aggiunge – ora ci troviamo davanti a due versioni dei fatti. Da un lato il Meccanismo di coordiamento della Guardia costiera (Mrcc) di Roma che nega di aver dato ordini, dall’altro la Augusta Offshore che, rilevano le carte, non pare aver agito in modo autonomo”.
Ma che, ancora una volta, è al centro di un caso che potrebbe diventare un importante precedente. Come spiega a ilfattoquotidiano.it l’avvocato Luca Saltalamacchia del collegio difensivo, “il giudizio intentato è assolutamente unico nella storia giudiziaria del nostro Paese perché per la prima volta in un caso di respingimento collettivo, accanto ad uno Stato, vengono citati in giudizio dinanzi a un Tribunale civile l’armatore ed il capitano della nave. Auspichiamo che con questo giudizio venga stabilito il principio che anche i privati sono responsabili se si prestano a partecipare a simili operazioni”.
CHI HA DATO L’ORDINE – Questa vicenda risale a due anni e mezzo fa. Nel tentativo di fuggire dalla Libia, dove avevano sofferto gravi abusi e violazioni, la notte del 30 giugno 2018 i cittadini eritrei erano partiti da Homs a bordo di un gommone sul quale viaggiavano 150 persone provenienti principalmente da Eritrea, Etiopia e Sudan. “Durante la navigazione la situazione è diventata critica e si rischiava il naufragio, così hanno inviato una richiesta di soccorso alle autorità italiane segnalando la posizione del gommone”, ha ricostruito l’avvocato Giulia Crescini del collegio difensivo. Alle 19, però, sul posto è arrivata la motovedetta libica Zwara (su cui si trovavano già altri naufraghi) che ha preso a bordo i migranti. A causa delle condizioni metereologiche e con un carico di quasi trecento persone, per l’imbarcazione è stato impossibile proseguire la navigazione.
Secondo quanto ricostruito dai legali attraverso fonti ufficiali, il tracciato delle navi e il diario di bordo della Asso Ventinove, le autorità della Marina militare italiana di stanza a Tripoli (le navi Caprera e Duilio) hanno dato istruzioni alla nave Asso Ventinove affinché raggiungesse la motovedetta libica. L’imbarcazione privata, in quel momento, era sulla rotta che da Tripoli conduceva alla piattaforma petrolifera Bouri Field, tra le più grandi del Mediterraneo. “Quando è arrivata la Asso Ventinove, sul posto c’era già la nave Duilio – ha spiegato Crescini – che, a sua volta, ha seguito le indicazioni provenienti dalla Marina italiana, intimando al comandante della Asso Ventinove di attenersi alle richieste provenienti dalla motovedetta Zwara”.
I passeggeri sono saliti a bordo della nave italiana, che si è diretta verso Tripoli, trascinando a rimorchio anche la motovedetta libica. Il 2 luglio la nave è arrivata al porto, ma senza attraccare: “I naufraghi sono stati trasferiti su imbarcazioni più piccole che li hanno condotti a terra”. E da qui portati in diversi centri. I cittadini eritrei che hanno fatto causa si trovano tutti in Europa. Hanno ricevuto il riconoscimento della protezione internazionale, “diritto – sottolineano le associazioni – dal cui godimento il respingimento li aveva esclusi”. Una sola persona è ancora in attesa dell’esito della valutazione della sua domanda di asilo. Secondo gli avvocati Luca Saltalamacchia e Giulia Crescini, non avendo valutato i rischi connessi al rimpatrio, le autorità italiane hanno violato “il divieto di respingimento collettivo stabilito dall’articolo 4 del protocollo addizionale 4 alla Convenzione europea per i diritti umani e l’articolo 19 del Testo unico sull’immigrazione che vieta il rimpatrio verso uno Stato in cui la persona rischia di subire torture o persecuzioni”.
IL MEMORANDUM ‘INTOCCABILE’ – Sullo sfondo, il ruolo dell’Italia in Libia dopo il Memorandum del 2017 e le relazioni tra i due Paesi. Secondo le associazioni, questa vicenda è la prova di come “oltre alla cooperazione nel fornire mezzi e addestramento, le autorità italiane abbiano in alcune circostanze il controllo materiale ed effettivo delle operazioni e intervengano quando i mezzi libici si rilevano insufficienti o inadeguati”. Niente di ufficiale. “Il tentativo è quello di lavarsi le mani. Questa volta abbiamo raccolto degli elementi, ma sono tante le storie che restano nell’ombra”, spiega Masinara di Amnesty International.
Dal Memorandum del 2017, sono stati 50mila i profughi portati in Libia. “Il governo ha ottenuto una riduzione sostanziale dell’attraversamento del Mediterraneo dalla Libia – aggiunge -, ma per noi è stata una catastrofe e ci domandiamo che fine abbiano fatto tutti i migranti senza tutela di cui si è persa ogni traccia”. Nel frattempo il dossier sul rinnovo del Memorandum “sembra intoccabile”. Va ricordato che l’interesse di contenimento dei flussi migratori non è l’unico in gioco. “Non è un caso – spiegano le associazioni – che sia stata proprio una nave dell’Augusta Offshore ad effettuare il respingimento”, dato che “in quella porzione di mare hanno una importanza capitale i servizi relativi al funzionamento delle piattaforme petrolifere in cui l’italiana Eni ha un ruolo estremamente rilevante”. Tra le altre cose Amnesty chiede una commissione parlamentare sulla questione degli accordi tra Libia e Italia. Ad oggi, sul caso, ci sono stati i rifiuti di accesso agli atti per le comunicazioni in mare da parte dei ministri Danilo Toninelli e Paola De Micheli, ma anche la mancata risposta a un’interrogazione parlamentare di Matteo Orfini (Pd).