Sul tavolo del neo premier la lettera dei 400 lavoratori che speravano nel progetto annunciato a luglio: la nascita di un polo dei compressori italiano mettendo insieme la ex Embraco e la Acc di Mel. Ma gli istituti di credito hanno negato la disponibilità a concedere le risorse necessarie, nonostante la garanzia al 90 per cento della Sace, controllata di Cassa depositi e prestiti
“Ieri sono partite lettere di licenziamento (….) tutto è di nuovo appeso a un filo e sta rapidamente scivolando verso il baratro. E il motivo di tale incertezza è dovuto al rifiuto da parte delle banche di concedere i finanziamenti necessari a far ripartire la produzione”. Inizia così la lettera inviata dai 400 lavoratori della ex Embraco al neo premier Mario Draghi per chiedergli di intervenire sbloccando i soldi che gli istituti di credito non sembrano disponibili a versare. La prima crisi aziendale su cui l’ex presidente della Bce viene chiamato in causa è deflagrata nel 2018 e negli anni è diventata un simbolo delle promesse non mantenute dalla politica.
Nel febbraio di quell’anno, in piena campagna elettorale, la fabbrica era diventata meta fissa di politici che si battevano contro la delocalizzazione. L’allora ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda definiva “gentaglia” i vertici della Embraco, multinazionale brasiliana dei compressori per frigoriferi controllata da Whirlpool. Pochi mesi dopo si brindava a prosecco per la riconversione industriale promessa dai nuovi soci di Ventures. In due anni quel processo non è mai partito e a novembre era Stefano Patuanelli, terzo ministro in tre anni, ad annunciare la nuova vita dello stabilimento di Riva di Chieri: il progetto Italcomp, che dovrebbe creare un polo italiano per la produzione di compressori insieme alla Acc di Belluno e salvaguardare l’occupazione di 700 persone. Ma la società ad oggi non c’è ancora e la crisi di governo ha congelato tutto. Così il curatore fallimentare della Ventures ha fatto partire la procedura per il licenziamento collettivo di 400 lavoratori: adesso ci sono 75 giorni per trovare un accordo e soprattutto i soldi che per ora le banche non hanno concesso.
“Questi lavoratori sono stati illusi e delusi troppe volte”, racconta Ugo Bolognesi, della Fiom di Torino. “Da tre anni e mezzo sono in cassa integrazione a 700 euro al mese. Parliamo di intere famiglie costrette a chiedere aiuto alla Caritas per fare la spesa”. Tutti si ricordano ancora il primo sciopero, 30 ottobre 2017. La Whirlpool aveva annunciato di voler delocalizzare la produzione in altri stabilimenti del gruppo in est Europa. A gennaio 2018 l’azienda comunica improvvisamente la chiusura della fabbrica e licenzia in tronco i quasi 500 lavoratori, facendo infuriare l’ex ministro Calenda. La trattativa risulta un fallimento e nei mesi successivi si batte la strada della reindustrializzazione: la spunta Ventures, una società italo-israeliana che con la garanzia del governo progetta di produrre a Riva di Chieri dei robot pulitori per pannelli fotovoltaici. “Eravamo scettici, ma a fronte del licenziamento non avevamo scelta”, ricorda Bolognesi.
Il governo concede due anni di cassa integrazione e Whirlpool mette sul piatto 20 milioni per la reindustrializzazione. La condizione è quella di far rientrare i dipendenti. E in effetti gli operai tornano pian piano nell’impianto torinese, ma non per lavorare: “A gennaio, quando sarebbe dovuta iniziare la produzione, lo stabilimento era ancora vuoto”, racconta Bolognesi. “Per mesi i lavoratori sono andati in fabbrica solo per fare le pulizie. Il prototipo di questo robot a Riva di Chieri non si è mai visto. Si capiva benissimo che non c’era nessuna intenzione di realizzare il progetto”. Whirlpool se ne accorge solo a dicembre, quando chiude i rubinetti del fondo al quale Ventures poteva accedere. Ma i conti non tornano: dei 20 milioni a disposizione ne sono rimasti solo 9. I sindacati presentano un esposto che porterà all’inchiesta della procura di Torino: secondo l’accusa almeno 3 milioni di euro sono stati usati per pagare finte consulenze a proprietari e manager della società e comprare auto di lusso, prosciugando i conti dell’azienda.
Il 23 luglio viene dichiarato il fallimento e dopo la richiesta di cassa integrazione il governo in autunno annuncia di aver trovato una soluzione: creare un polo dei compressori italiano mettendo insieme la ex Embraco e la Acc di Mel, a Belluno, altro storico produttore del settore finito in mani cinesi e poi abbandonato dalla proprietà, che dovrebbero confluire in una nuova società, la Italcomp. L’idea è quella di tornare alla filiera corta per evitare la fortissima dipendenza dalla Cina. “Da lì oggi arriva il 95 per cento dei compressori utilizzati in Europa e la pandemia ha dimostrato i limiti di questa impostazione. Il mercato degli elettrodomestici è cresciuto tanto nell’anno del Covid e tra Torino e Belluno si metterebbero insieme competenze decennali nel settore”, spiega Bolognesi.
Per poter vedere la luce il progetto Italcomp deve però superare il problema di liquidità della Acc: se l’ex Embraco è ferma da ormai tre anni, a Belluno si produce ancora e per il 2021 gli ordini hanno già superato i 2 milioni di compressori, come non accadeva da 10 anni. Il problema è che mancano i soldi per pagare i fornitori e mandare avanti la produzione. Il piano industriale sostenuto da Invitalia e dalle regioni Piemonte e Veneto, che avranno in mano il 70 per cento della società, ha trovato però l’ostacolo dell’Europa. Il finanziamento iniziale da 12 milioni di euro è stato chiesto a tre istituti di credito, Unicredit, Intesa e Ifis, con la formula della garanzia totale dello Stato. La Commissione europea, che deve autorizzare la richiesta di aiuto di Stato del governo italiano, lo scorso dicembre ha chiesto altro tempo e posticipato di 150 giorni la decisione. Ora si sono invece messe di traverso le banche, che anche nell’ottica di un finanziamento con garanzia al 90 per cento della Sace, la controllata di Cassa depositi e prestiti, hanno negato la propria disponibilità.
A pesare è stata la crisi politica e la prospettiva di un cambio di governo, che ha tolto certezze sul futuro della vicenda. “Sono tre anni e mezzo che più di 400 lavoratori e le loro famiglie vivono di aspettative, alimentate dai tre governi che se ne sono occupati, ma dopo tutte queste promesse i posti di lavoro ancora non si vedono”, dice Vito Benevento della Uilm di Torino. Per questo ora i lavoratori chiedono l’intervento di Draghi “su un tema per cui si è sempre speso”, ricordano, sottolineando che “il sostegno alle imprese da parte del sistema bancario avrebbe dovuto costituire uno dei pilastri della ripartenza economica”.