“Sarebbe interessante approfondire la nostra conoscenza per un confronto su possibili collaborazioni e sinergie…” oppure “È venuto il momento di fare rete tra noi imprenditori del settore X…”. Quante volte, come consulenti di aziende, avete letto (o scritto) un messaggio del genere su LinkedIn? Quante volte avete sentito parlare, tra i micro e piccoli imprenditori, di tentativi di collaborazione tra competitor?
Io tante volte. Ma si è sempre trattato di puri formalismi che, tranne rari casi, non hanno mai prodotto nulla di concreto. E non parlo della inutilità dell’associazionismo di rappresentanza imprenditoriale. Queste organizzazioni non sono mai servite a nulla e in questo ultimo periodo sembrano, anche perché ancora legate a un modello tradizionale (paleolitico!), attraversare un progressivo e lento processo di dissoluzione.
Mi riferisco, invece, al fatto che in Italia, tra i piccoli imprenditori e i consulenti che li assistono, manca la cultura della “coopetizione”, quel concetto che si può riassumere nell’ossimoro “collabora con il tuo rivale”. La coopetizione, infatti, è una strategia di business che coniuga le caratteristiche della cooperazione e della competizione e si realizza tra imprese (e liberi professionisti) concorrenti che scelgono di collaborare limitatamente a certe attività del proprio business. Si tratta di accordi tra due, massimo tre soggetti operanti nello stesso settore.
Nel mondo post-pandemico le micro e le piccole imprese (e i loro consulenti) non possono lasciarsi sfuggire questa opportunità. Ci sono molte ragioni che devono spingere le piccole aziende concorrenti a coopetare. Innanzitutto risparmiare sui costi ed evitare duplicazioni di investimenti. Se un progetto è troppo impegnativo o rischioso per una sola azienda, la coopetazione potrebbe essere la soluzione.
In secondo luogo, e qui subentra il fattore psicologico che determina i deliri di onnipotenza (anche dei consulenti), occorre accettare l’idea che ci sia qualcuno più bravo a fare qualcosa. In altri termini se una parte è più brava a fare A mentre l’altra è più capace a fare B, ci potrebbe essere, sempre che si riconosca la sconfitta sui relativi punti, un efficiente scambio di competenze. E anche qualora una parte sia brava a fare A mentre l’altra non ha un B migliore da offrire, ci si potrebbe mettere d’accordo sul prezzo di A e realizzare economie di scala. Perché la coopetazione deve essere sempre vantaggiosa per entrambi e determina la rottura dell’accordo quando lo scambio è ineguale.
Il problema risiede sempre nella stessa atavica causa: la flessibilità mentale e l’approccio al cambiamento. Imprenditori e consulenti, di solito, ragionano sulla base di concetti alternativi e non duali: competere o cooperare invece che competere e cooperare. Provate a pensare, invece, al vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti che ragionano solo in termini di competizione.
Porto l’esempio della mia categoria: tanti consulenti “tuttologi” (bravi a seguire, ad esempio, gli aspetti fiscali e tributari) hanno condotto alla morte migliaia di aziende perché non avevano le competenze e le capacità di elaborare processi di riorganizzazione di aziende in crisi. Hanno comunque perso il cliente. E se si fossero rivolti ad un collega con quelle expertise? Forse starebbero ancora ricevendo la parcella.