“La storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”. Considerando il breve, sfortunato e incolore passaggio del padre al comando della Corea del Nord, la leadership sopra le righe di Kim Jong-un, in diretta continuità con nonno Kim Il-sung, appare realmente una marxiana farsa. A dipingerne i contorni storici e di cronaca poco battuti, a riempirne le caselle vuote lasciate dalla propaganda di stato, ci ha pensato Anna Fifield con “Il grande successore”, in raffinata e rosseggiante copertina rossa firmata Blackie edizioni (editore che amiamo, anche solo per il cagnetto puzzolente in origine). La giornalista neozelandese ha visitato per sei volte la Corea del Nord (non una cifra da nulla, vista l’impenetrabilità straniera), ha dialogato con testimoni fuggiaschi, e infine ha ricomposto i tasselli biografici dell’ultimo dei Kim a capo dello “stato totalitario che la sua famiglia aveva grossomodo inventato”. Ne esce un ritratto spaventosamente ridicolo, paurosamente omicida, seriamente preoccupante sia di un presunto gigante con oggettivi piedi d’argilla (la Corea del Nord) con in mano un vero arsenale nucleare, sia di un capo di stato che pare più un gangster da film che uno statista pericoloso ma pur sempre eletto democraticamente. La scuola in Svizzera, la passione per il basket, Whitney Houston, Jean-Claude Van Damme e i modellini di aerei e navi, Kim, capelli Pompadour, outfit extralarge alla Mao, è la scheggia impazzita dello scacchiere internazionale che giunge al potere a nemmeno 27enne nel 2011. Da fuori per anni l’hanno dipinto come un Dottor Stranamore. La Fifield però lo inquadra in perfetto equilibrio tra eccessi narcisistici (quell’orwelliano culto della personalità, quel focaultiano sorvegliare e punite) e misure strategiche ponderate (il nucleare, l’hackeraggio di stato, la distensione con la Corea del Sud e gli Usa di Trump) tanto da inclinare la farsa verso una machiavellica realpolitik. Con cartine e albero genealogico. Voto (senza difesa di Dennis Rodman): 7