Lo so, è una mia pia antica illusione, ma in me è davvero dura a morire… Da anni scrivo dello stato di crisi profonda del nostro sistema manifatturiero (“food” e “fashion” esclusi): da anni, a parte pochi coraggiosi aficionados, il nostro mondo imprenditoriale e politico ostenta quanto sia dura d’orecchio una parte fondamentale del nostro sistema dirigente. Diventa perfino imbarazzante per me tornare sull’argomento.
Qualche idea sul perché di cotanta sordità ce l’avrei, ma è inutile girarci attorno: vale quello che un senatore della Repubblica, oggi in carica, mi disse quando cercai di spiegargli con pazienza le basi del mio pensiero (gestione aziendale: che poi è sulle stesse orme del pensiero di Giuseppe De Rita): “Ah, ma tanto io sto con Stiglitz: e sto in una botte di ferro!” Ora io mi domando: ma che cosa volete che ne sappia il pur eccelso Joseph Stiglitz delle nostre Pmi, del loro modo di comportarsi, dei loro problemi! Il che dice sia quanto aveva capito il nostro rappresentante politico, senatore della Repubblica, sia quanto poco fosse disposto a capire.
Che il manifatturiero italiano, (Made in Italy, estro italiano, design d’avanguardia) di fatto sia diventato una sorta di campione mondiale della subfornitura (niente Made in Italy, niente estro italiano, niente design d’avanguardia… complimenti per lo splendido declassamento!), ovvero di una economia sussidiaria di altre economie non italiane non interessa a nessuno. Sostanzialmente puro ruolo gregario di portaborracce ai campioni che vincono le corse.
Che il vero “profitto” risieda nei prodotti “finiti” (per esempio una motocicletta) e non certo nei componenti (le ruote per la motocicletta, i pistoni, le valvole, ecc.) è indiscutibile: quanti “consulenti” ho conosciuto che su questo tema hanno risposto: “Sì, è vero, ma queste aziende riescono comunque a tirare fuori qualche profitto!”. Della serie: “Sì però in questo modo almeno tiriamo a campare…”
E sarebbe questa la nostra classe dirigente? Se parlate con qualsiasi esponente del mondo confindustriale, quello che emette sentenze ad ogni piè sospinto, vi sentirete rispondere che “la colpa è dei politici”. È sempre colpa dei politici… Balle… Balle d’Aronne! Se non altro non tutta la colpa…
Io sono un vecchio pensionato, molto irritato dalla qualità (talvolta perfino offensiva) di molti uomini della politica, ma qui la mia coscienza mi impone di difenderli cercando di chiarire “chi fa che cosa”. Ora, vorrei che fosse ben chiaro, anche i politici hanno le loro responsabilità, ovviamente, ma non quella di non aver pensato ad una “politica manifatturiera” di loro iniziativa. Perché non è affatto loro competenza.
Si tratta non solo di competenza ma, soprattutto, di un dovere sociale del mondo imprenditoriale: è da questo mondo, e soltanto da questo, dalle sue conoscenze tecnologiche e di sviluppo della domanda nei vari mercati, dalle evoluzioni attese dei vari competitori, eccetera, che si può cominciare a delineare un quadro del futuro nel quale il nostro sistema manifatturiero potrebbe inserirsi e trarre vantaggi. Certo, se il mondo imprenditoriale ha scelto la strada del “tiriamo a campare”, c’è ben poco da sperare…
Si tratta di una situazione del tutto parallela a ciò che accade nel mondo militare: tutti gli stati maggiori delle varie armi, ammesso che siano concordi, non possono dichiarare guerra. È il potere politico che decide, ma questo non può prescindere dai pareri “tecnici” dei militari… Il vero problema, credo, sta nella “afasia” imprenditoriale: in Confindustria (massima espressione italiana del mondo industriale, ma non la sola) – dove pure si fanno pregevoli ricerche e studi – esiste una netta frattura fra i “grandi” e i “piccoli” industriali: manca una condivisa “visione d’insieme“.
Esiste anche una differenza, fra i due gruppi, sia di “cultura gestionale aziendalistica” sia di “conoscenza e interpretazione dei mercati-mondo”, due entità diversissime anche nelle tecniche di gestione aziendale caratteristica, quotidiana e il mondo industriale non ne porta per nulla responsabilità: il mondo dei Keynes, dei Modigliani, degli Stiglitz, dei grandi economisti non c’entra per nulla.
Tornando al rapporto col mondo militare, qui c’è una grande carenza di colonnelli, di capitani, di tenenti adeguati alla bisogna. E questo è un problema puramente politico, di cultura aziendale (non amministrativa soltanto, ma anche gestionale e manageriale).
È un problema di scuola: le legioni di diplomati e/o laureati in materie economiche che approdano nel mondo aziendale hanno una cultura prevalentemente amministrativa; che è un cultura indispensabile, ma è una “cultura del post”, orientata alla conoscenza di ciò che è stato. Dobbiamo vigorosamente formare anche diplomati/laureati improntati ad una “cultura dell’ante”, che è quella gestionale manageriale in senso completo, una cultura problem solving. Ma i nostri politici se ne rendono conto?