Lunedì 15 febbraio ricorrono trent’anni dalla nascita del Patto di Visegrad, sono sicuro che l’evento verrà celebrato molto discretamente. Perché è un anniversario tristanzuolo. Lo festeggeranno infatti i sovranisti e i nemici dei diritti, delle libertà e della democrazia che si sono impossessati del potere in Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia (queste ultime due a quel tempo ancora Cecoslovacchia). Eppure, le premesse erano state ben diverse.
Spirava nel cuore dell’Europa appena liberata dal giogo del comunismo un vento libertario, che voleva spazzar via il lungo sonno dei regimi fedeli al Cremlino. La caduta del Muro di Berlino aveva alimentato grandissime speranze ed altrettante aspettative nei Paesi del cosiddetto “Blocco di Varsavia” che avevano cacciato i governi fantoccio di Mosca ed avevano tantissima voglia d’Occidente. La Grande Aspettativa viene intercettata dai nuovi leader di Praga, Varsavia e Budapest. Tant’è che Lech Walesa, l’eroe di Solidarnosc diventato presidente polacco, come il suo omologo Vaclav Havel, l’eroe della Primavera di Praga, presidente di un’ambiziosa Cecoslovacchia convincono Joszef Antall, il premier ungherese, a creare una struttura informale con lo scopo dichiarato di “cooperazione” per raggiungere l’integrazione europea quanto prima. Hanno l’appoggio dichiarato della Germania, che vede ottime prospettive di penetrazione finanziaria ed economica. C’è l’assenso di Francia e Italia. Insomma, le prospettive sono positive.
Walesa, Havel e Antalla scelgono un luogo per nulla casuale dove sancire il loro accordo: il castello reale di Visegrad. Qui, nel 1335 i re di Ungheria, Boemia e Polonia strinsero un’alleanza divenuta secoli dopo simbolica e spiritualmente significativa. Rappresentava la volontà di dar corpo e sostanza alla pulsione “europeista”. L’affiliazione culturale e politica ai valori fondanti del Vecchio Continente. Dopo la separazione pacifica di Bratislava da Praga, il Gruppo di Visegrad si ritrovò formato da quattro Paesi, un blocco geopolitico che sembra far da cuscinetto tra Ovest ed Est. Ogni anno, i Quattro di Visegrad decidono di tenere un summit, sotto la presidenza di uno di loro, a turno, per confrontare gli sviluppi del lavorìo diplomatico e di controllare l’ascesa inevitabile dei nazionalismi che già serpeggiavano.
In verità, tra il 1994 e il 1998 non è che tra i Quattro le cose andassero per il meglio. La solidarietà resta appesa alle parole. Ognuno cerca di arrangiarsi, nella perigliosa rincorsa all’Europa. La strategia, appunto, è quella del “cavaliere solitario”. Inoltre Varsavia, Budapest e Praga snobbano Bratislava, anche perché in Slovacchia si è intanto affermato Vladimir Meciar, un premier nazionalista – e questo passi – ma soprattutto filo russo, e questo inquieta i soci, e pure Bruxelles. Via Meciar e l’euroscettico Havel, il Gruppo di Visegrad comincia a ricompattarsi. Ed agisce in modo unitario. Con successo. Scombinano le carte, preoccupano Mosca, perché nel 1999 Polonia, Ungheria e Cechia raggiungono la Nato. E’ il passo decisivo che gli spiana la strada verso l’Europa. Che li accoglie nel 2004. Compresa la Slovacchia che raggiunge i soci pure nella Nato (era, questa una condizione necessaria, ma sottaciuta).
La doppia integrazione è dunque la vittoria del Gruppo di Visegrad. Ma è anche una sconfitta: perché così perde la sua primitiva ragione d’essere. Da quel momento, comincia tutta un’altra storia. E non è una bella storia. L’Unione Europea vuol dire, per esempio, armonizzazione delle fiscalizzazioni. I Quattro non ci stanno. Anzi. Pretendono una maggiore mobilità nel mercato e del lavoro (ossia vogliono sfruttare i minori costi e certe disinvolture sul piano della normativa). Attingono comunque a piene mani dai fondi sociali e strutturali europei. I risultati sono impressionanti. Tra il 1994 e il 2018 la crescita annuale del loro Pil è mediamente del 3,4%, sia pure modulato su piani differenti (dal 2,5% dell’Ungheria al 4,2% della Polonia). Un ritmo superiore al resto dell’Europa, in cui parecchi fattori hanno giocato, a cominciare dalla qualità delle riforme economiche e alla gran voglia di recuperare lo svantaggio che li separava dai Paesi più progrediti.
L’indice più interessante, però, è quello relativo agli investimenti diretti stranieri. Sono la cartina di tornasole della salute economica e finanziaria di ogni Paese. Ebbene, la crescita annuale è del 16% (dall’11% dell’Ungheria al 19% della Polonia). Per intenderci, la Cina nello stesso periodo ha fatto peggio (+14%). Cosa vuol dire? Che l’attrattività dei Quattro di Visegrad è molto elevata. Perché si realizza una montagna di quattrini, un vero Far West. O meglio, Far East… Poi, perché in Polonia, Ungheria e Cechia c’è piena occupazione, tranne in Slovacchia, dove il tasso di disoccupazione è del 7%.
Il successo, però, va a vantaggio dei regimi politici, ed ha un grosso prezzo: cela fragilità economiche ed istituzionali. Per esempio, l’invecchiamento delle popolazioni (con i maggiori costi sociali e previdenziali). La riduzione dei fondi europei. La dipendenza nei confronti degli investitori stranieri, soprattuto tedeschi. L’Ungheria, in particolare, è l’anello debole dei Quattro: patisce un debito elevato, rispetto agli altri tre soci (70% del Pil), e ha un cronico deficit di bilancio. Il che favorisce la radicalizzazione delle politiche interne e lo sviluppo dei nuovi nazionalismi secondo la cifra esasperata del sovranismo. Malattia da cui debolmente sta cercando di guarire la Slovacchia (peraltro, l’unica ad aver adottato l’Euro), alle prese con un nuovo governo più attento e disponibile alle riforme (vedi di recente il dietrofront sull’impopolare dossier delle pensioni) e alla lotta contro la corruzione e i gruppi di potere collusi con le mafie.
Già. Corruzione. Assalto allo stato di diritto. Indipendenza del sistema giudiziario sempre più precaria. Mancanza di libertà di stampa ed opposizioni zittite sono i principali ostacoli sulla via che da Visegrad doveva portare a Bruxelles ed invece sta portando a derive insopportabili. Quelle di Ungheria e Polonia che hanno attuato una pesante politica di repressione del dissenso e di violazione dei diritti, ferendo gravemente il corpo dei valori fondamentali di ogni democrazia, travalicando il confine che separa il potere giudiziario da quello esecutivo. L’anomalia è presente nelle cronache di tutti i giorni.
E allora, perché ricordarne i trent’anni? Perché ricordiamo anche la Shoah. Il Vietnam. La Libia. La Siria. La caduta di Trump. Perché c’è chi lotta contro i soprusi spacciati per “interessi nazionali da difendere contro i superpoteri di Bruxelles” e continua a sperare nell’Europa dei valori, delle libertà, della giustizia. L’Europa agognata nel patto stretto a Visegrad il 15 febbraio del 1991. Macché. I governi di Budapest e di Varsavia hanno seppellito quel sogno, ora sfidano chi li ha aiutati. Fanno guerra alle istituzioni della Ue, non sopportano i principii fondanti dello Stato di diritto. Una guerra.
To jest wojna, “questa è una guerra”. Dovrebbe riconoscerlo Ursula von der Leyen. Invece è il grido di battaglia delle donne polacche. Protestano contro la legge entrata in vigore mercoledì 27 gennaio che limita il diritto all’aborto. Ed è guerra per difendere l’informazione sulle sponde della Vistola e su quelle del Danubio. Dove le ultime voci libere vengono zittite. Tanto che a Varsavia il 12 febbraio giornali siti e tv sono usciti con pagine e schermate tutte nere, sovrastate da una scritta: Media bez wiboru, media senza scelta. Per denunciare un progetto di legge infido e devastante, la tassa del 15 per cento sugli introiti pubblicitari che di fatto manderebbe a gambe all’aria tutti le 43 testate indipendenti (giornali, siti privati e le testate televisive) che non sono schierate con il potere. La legge prevede che i media dovranno ospitare più materiali dal “contenuto nazionale polacco”. La “ripolonizzazione” dell’informazione. Come ai tempi di Stalin, di Hitler, di Mussolini.
Il blitz del Partito Diritto e Giustizia, giustificato ufficialmente dalla necessità di reperire più fondi per la lotta contro il Covid (una bugia plateale: ci sarebbero i soldi Ue…), arriva il giorno dopo che a Budapest viene chiusa l’ultima voce libera dell’Ungheria, KlubRadio (500mila ascoltatori), emittente bloccata dal governo con la scusa di una piccola inadempienza amministrativa, un ritardo burocratico. Da qui la revoca della licenza, che ha confermato la decisione dell’ineffabile Consiglio dei Media, organismo composto solo da esponenti fedelissimi ad Orban. Lo stop alle trasmissioni ha un sapore beffardo: a mezzanotte del giorno di san Valentino…