Cultura

Efrem Raimondi, addio al fotografo amatissimo che più di ogni altro suo ritratto amava quello del padre: “Il mio maestro”

Giulio Andreotti, Monica Bellucci, Zlatan Ibrahimovic (di cui scelse di ritrarre solo le dita dei piedi fasciate e ammaccate dopo una partita) Joe Strummer ma anche le giovani famiglie di Busto Arsizio, la città nella quale aveva insediato anni fa il suo nido insieme alla adorata moglie Laura e ai loro gatti: tutti, davanti all’obiettivo di Efrem, diventavano opere (degne) d’arte. La sua arte

di Federica Artina

Era il fotografo che ti spiazzava dicendoti che “la fotografia non esiste”. Era l’artista che viveva la sua vita non come un’opera d’arte ma piuttosto come una continua indagine del mondo e delle persone. Era il maestro che schietto, concreto ma sempre motivante ha formato decine di giovani fotografi e sostenuto al bisogno i colleghi e gli amici. Era Efrem Raimondi. Un uomo che il mondo della fotografia piange sconsolato.

Efrem Raimondi se ne è andato all’improvviso martedì 16 febbraio. La mattina faceva gli auguri di compleanno a un amico, a metà pomeriggio la notizia della sua tragica scomparsa ha annebbiato con un velo di shock e smarrimento l’universo di persone che lo conoscevano, stimavano e amavano. Aveva 62 anni.

Davanti al suo obiettivo in 38 anni di onorata e stravissuta carriera sono passati sportivi, star della musica e del cinema, politici, personalità “influenti” quando ancora influenzare voleva dire lasciare veramente un segno. Suoi, per esempi, gli iconici scatti di Vasco Rossi in jeans e camicia bianca fradicio sotto la doccia. Sua una celebre immagine dell’archistar Philippe Starck ricoperta da un telone di cellophane (“mi bastarono 45 secondi – raccontò Raimondi – mi ha dato subito quello che cercavo”). Suoi tanti altri ritratti di persone comunissime delle quali però Raimondi sapeva magicamente cogliere il lato più unico. Quando gli chiedevi quale fosse uno dei suoi lavori più riusciti, per esempio, lui menzionava sempre il ritratto del padre, “il mio primo maestro”, immortalato con la camicia scanzonatamente aperta e una ferita chirurgica in mostra sul ventre.

Giulio Andreotti, Monica Bellucci, Zlatan Ibrahimovic (di cui scelse di ritrarre solo le dita dei piedi fasciate e ammaccate dopo una partita) Joe Strummer ma anche le giovani famiglie di Busto Arsizio, la città nella quale aveva insediato anni fa il suo nido insieme alla adorata moglie Laura e ai loro gatti: tutti, davanti all’obiettivo di Efrem, diventavano opere (degne) d’arte. La sua arte.

Era il fotografo a cui piaceva definirsi scomodo e che amava smontare i clichè, fedele alla sua visione del mondo e delle cose ancorata all’onestà. Ecco perché sosteneva che la fotografia non esiste: perché ogni ritratto, così come ogni cosa immortalata attraverso un obiettivo, è restituita filtrata dallo sguardo dell’autore, vero soggetto di ogni opera. “Le fotografie non fanno altro che rappresentare l’idea che chi le scatta ha del mondo – disse una volta – Oggi si sente fin tropo facilmente dire che le foto hanno un carattere sociale. Pura demagogia”.

Efrem Raimondi era anche l’uomo che sapeva leggere e prevedere i tempi. Cinque anni fa, riflettendo sulla preoccupante ascesa del potere dell’apparenza che i social network stavano provocando nella quotidianità, rifletteva amaro: “Non c’è consapevolezza, solo un’operazione di presenza a tutti i costi a caccia di approvazione. Solo illusione di essere presenti a sé e agli altri”. Una sentenza non sputata ma figlia dell’esperienza, dopo che lui stesso fu tra i primi ad allestire una personale con fotografie scattate unicamente con il suo iPhone. Perché in ogni caso “la fotografia deve essere uno strumento per raccontare una storia, la propria storia. Se stessi”. Ma con consapevolezza. Tanta. E qualità. Ancora di più. E un linguaggio preciso. Quello che solo la formazione può e deve dare.

Forse in questo giorno, in cui tanti si sentono orfani dell’artista come della persona, il modo più giusto per onorare la sua partenza troppo anticipata da questo mondo è ricordare i consigli che diede una volta ai giovani aspiranti fotografi: “Rimanete sempre ingenui, non emulate ma siate sempre coerenti con la vostra visione e tramutate in espressione ciò che vedete e pensate. È l’unico modo per emergere. E studiate, studiate, studiate. Perché è vero che la tecnica nella fotografia è soltanto uno strumento, ma è fondamentale, è la condizione imprescindibile per esprimere precisamente quel che si vuol dire. Come diceva Marx: chi conosce più parole, ha più potere. Il digitale oggi dà l’illusione di poter saltare la parte didattica, ma chi pensa che sia così è un ignorante”. Si dice che nessuno muore mai completamente. Efrem Raimondi, di certo, è ancora qui tra noi e ci resterà a lungo.

Efrem Raimondi, addio al fotografo amatissimo che più di ogni altro suo ritratto amava quello del padre: “Il mio maestro”
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