di Roberto Oliveri del Castillo, magistrato
Da qualche settimana sui media tiene banco la questione legata alle rivelazioni contenute nel “Sistema” del duo Palamara-Sallusti, con alcuni opinionisti che hanno offerto la loro lettura (è il caso del professor Galli della Loggia, “Giustizia, la riforma mai fatta”, Corriere della Sera del 12 febbraio 2021) in termini di conflitto magistratura/politica e di squilibrio dei poteri a favore della prima, in grado, si assume, di condizionare governi e azione politica. “Né si dica – aggiunge in un passaggio il noto politologo – che però la politica ha il potere di fare le leggi alle quali anche i magistrati debbono sottostare. Perché quel potere ce l’avrà certamente la politica, ma è assai meno certo che invece ce l’abbiano i politici, consapevolissimi dei pericoli a cui si espongono se concepiscono e tanto più approvano leggi sgradite ai magistrati”.
Dispiace, francamente, che un insieme piuttosto sconclusionato di luoghi comuni e affermazioni infondate si sia fatto strada anche nella percezione di qualche pur attento analista, così simile alle tesi che emergono dal recente “Sistema” sopra ricordato, dove sembra che una mostruosa magistratura progressista, collaterale al Pd, sia sempre pronta ad aggredire i politici (soprattutto di centrodestra) non appena questi tentino qualche riforma che coinvolga e riguardi la magistratura.
Ma è proprio cosi? La realtà, svestita da paludamenti ideologici che spesso la soffocano, sembra – dati alla mano – ben diversa.
Forse gioverà ricordare, allora, che la magistratura negli ultimi 20 anni, di riforme, non sempre migliorative, spesso peggiorative se non punitive, ne ha subite tante senza battere troppo ciglio se non qualche timida protesta dell’Anm (nella quale, fino a pochi anni fa, ricopriva un ruolo apicale proprio Luca Palamara, ora invece citato da fior di opinionisti quasi come “maitre a penser”).
Ad esempio, nel 2001, la Casa delle Libertà, dopo la vittoria alle elezioni politiche, mette in campo una serie di riforme della giustizia, dalla prescrizione (che viene accelerata con la legge cosiddetta ex Cirielli n. 251 del 5 dicembre 2005) alla separazione delle carriere dei magistrati (che, in assenza di legge costituzionale, il 16 dicembre 2004, dopo essere stata approvata dai due rami del parlamento, viene bocciata dal presidente Ciampi come incostituzionale, e corretta con una più marcata separazione delle funzioni, vede la luce nel luglio 2005).
Nel 2002, sempre governo Berlusconi, era stato riformato il Consiglio Superiore della Magistratura portando il numero dei consiglieri da 30 a 24, oltre a riformare il sistema elettorale, con candidature dei magistrati a titolo individuale e senza liste con contrassegni, nel tentativo di ostacolare le cosiddetti “correnti”. Tale riforma, apparentemente innocua, ha viceversa rivelato tutta la sua negatività, da un canto incidendo concretamente sul lavoro delle commissioni, per essere stato drasticamente ridotto il numero dei membri elettivi, col risultato che l’iter per coprire le scoperture di organico è molto più lungo e farraginoso, e può durare dagli otto mesi all’anno per il carico di lavoro. Dall’altro, si sono poste le basi per creare e rafforzare poteri e carriere personali sganciate da orientamenti e culture associative radicate nel tempo, così che, ad esempio, nella corrente Unità per la Costituzione, a gente del calibro di un Adolfo Beria d’Argentine, assume rilievo un Palamara, o in Magistratura Indipendente, a gente del calibro di un Marcello Maddalena, soggetti legati a filo doppio con la politica in ruoli di governo o parlamentari.
Nell’aprile 2006, terminata l’esperienza del governo Berlusconi, si affaccia la riforma del neo ministro della Giustizia Clemente Mastella, che elimina alcune innovazioni peggiorative introdotte dal ministro Castelli, come la scelta preventiva tra carriera giudicante e requirente, ma introduce un elemento che ha determinato l’attuale degrado del concorso in magistratura, ovvero la necessità di accedervi con un titolo secondario dopo la laurea in giurisprudenza (titolo di avvocato o specializzazione post laurea). Anche qui, il risultato (unitamente alla trasformazione del corso di laurea in giurisprudenza da 4 a 5 anni) è l’allungamento a dismisura dei tempi di accesso alla professione, con la conseguenza di allontanare le energie migliori dalle prove, in luogo di carriere ad accesso più rapide post laurea; tanto che a distanza di 13 anni sono allo studio progetti di riforma per riportare, auspicabilmente, il concorso in magistratura all’originario accesso con la sola laurea (laddove si potrebbe, ad esempio, prevedere un voto minimo per selezionare i candidati).
Il governo Prodi II cade per una serie di circostanze, non ultima l’indagine che porta all’arresto della consorte del ministro Mastella (recentemente assolta con sentenza passata in giudicato). Questa vicenda, nella sua drammaticità per le persone coinvolte e poi assolte, sembra la migliore smentita alla tesi palamariana sostenuta nel “Sistema” della magistratura volta a contrastare i governi di destra, alla quale pare credere anche qualche poco attento analista. Non c’è infatti, e non potrebbe essere altrimenti, alcuna volontà di contrastare alcun governo, o disegno strategico per ostacolare questo o quel partito, a meno che ciò non sia nelle intenzioni dell’autore del libro e di qualche suo sodale. L’unica volta in cui un procedimento penale ha avuto come effetto collaterale quello di far cadere un governo, si è trattato di un governo di centro-sinistra.
Tornato al potere Berlusconi nella primavera del 2008, non contenti della separazione delle funzioni realizzate dal precedente dicastero Castelli, il neo ministro della giustizia Alfano predispone una riforma costituzionale da far tremare i polsi, che prevede separazione delle carriere, due Csm separati per giudici e pubblici ministeri, in caso di assoluzione in primo grado divieto di appello o ricorso per cassazione. Quale fosse l’incidenza di una riforma costituzionale del genere sulla ragionevole durata dei processi, pure evocata come giustificazione della necessità del nuovo intervento, non è stato mai compiutamente spiegato. In ogni caso si tratterà di un progetto che non avrà mai la forza politica di essere portato a compimento per la fragilità della maggioranza, dilaniata da scontri interni soprattutto con Alleanza Nazionale di Fini.
Quello che viene invece portato avanti e approvato con legge ordinaria è il famigerato “Lodo Alfano”, entrata in vigore l’8 agosto 2008 afferente la sospensione dei procedimenti per le alte cariche dello Stato (Presidente della Repubblica, Presidenti di Senato e Camera dei Deputati e Presidente del Consiglio, ma nei fatti di rilievo pratico riguardante solo il Presidente del Consiglio dei ministri Berlusconi, essendo l’unico, a quel tempo, ad essere sottoposto a procedimenti penali), ripropositivo di un vecchio pallino, tentato in passato già con il cosiddetto Lodo Schifani, poi dichiarato incostituzionale con sentenza n. 24 del 20 gennaio 2004. La legge, nonostante le evidenti incostituzionalità viene promulgata dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ma verrà poi travolta dalla Corte Costituzionale, come il precedente “Lodo Schifani”, con la sentenza n. 262 del 7 ottobre 2009.
A parte la parentesi del governo Monti, con interventi tesi a restituire efficienza al processo penale e a risolvere l’emergenza carceraria, in cui non si registrano interventi ordinamentali a scopo “punitivo” o “ad personam”, col governo Renzi si registrano altri provvedimento non proprio favorevoli ai magistrati, come la legge taglia-ferie, avvenuta addirittura con decreto legge (d.l. n. 132 del 12 settembre 20014, poi convertito in legge con l. n. 162 del 10 novembre 2014); anche in questo caso, nonostante la forte carica demagogica sottesa al provvedimento e l’efficacia pari a zero sul carico di lavoro dei singoli uffici (dove il vero fattore di determinazione del carico sono le carenze di organico tra magistrati e amministrativi, le piante organiche sottodimensionate e la carenza di concorsi per colmare i vuoti, tutti fattori di competenza ministeriale e quindi politica), non si verifica alcuna protesta formale o presa di posizione dell’Anm.
Questo per dire che appare del tutto infondata la tesi portata avanti nel “Sistema” e ripresa da alcuni autorevoli articoli di stampa circa lo scontro che sarebbe portato avanti dalla magistratura contro la politica che invece vuole fare le riforme per il bene del paese. Chi ha inteso portare avanti riforme, più o meno utili (spesso meno) a rendere più efficace il processo civile e penale, o a rivedere l’assetto organizzativo interno, anche le più sbagliate se non incostituzionali, l’ha sempre fatto, senza che la magistratura si mettesse di traverso salvo affermare nelle sedi competenti, per dovere di onestà intellettuale, quali erano le criticità di quelle riforme.
Altrettanto infondata è la visione, offerta da Palamara, di un coinvolgimento diretto di politici esterni al Csm ogni qualvolta si debba trattare una nomina di un magistrato ad un ufficio, come sembra affermare a pag. 14 (“la verità è che dietro ogni nomina c’è un patteggiamento che coinvolge le correnti della magistratura, i membri laici del Csm e direttamente o indirettamente i loro referenti politici”). Laddove poi dice che vi sono stati altri momenti di ritrovo con parlamentari estranei al Csm stile “Hotel Champagne”, come in occasione della nomina di Ermini a vicepresidente, l’intervistatore glissa, senza chiedere come dove e con chi, lasciando il discorso appena accennato, con la conseguenza ovvia di aumentare, invece che diradare, l’opacità dei rapporti.
Altra grossolana imprecisione Palamara la confeziona quando dice che Magistratura Indipendente, corrente di destra, era tenuta ai margini delle nomine dei dirigenti degli uffici dal Csm a causa degli accordi Md-Unicost. Ma questo forse accadeva in un universo parallelo. In questo, dati alla mano, la maggioranza dei seggi al Csm composta da UNICOST ed MI con i laici del centrodestra ha sempre avuto la maggioranza assoluta, dovendosi accontentare la componente progressista di Md con i Movimenti-Art. 3, ora confluiti nella corrente di AreaDG, di ciò che la maggioranza consentiva, o in casi eccezionali e/o per il valore assoluto dell’aspirante (come ad esempio è il caso della nomina di Gian Carlo Caselli alla procura di Palermo nel 1993). Non sono mai mancate nomine all’unanimità. In altri casi, come per la votazione Meli-Falcone all’Ufficio Istruzione di Palermo alla fine degli anni 80 del secolo scorso, le correnti si erano addirittura spaccate al loro interno, con voti che erano stati espressi indubbiamente secondo coscienza.
Quindi, nessuna maggioranza precostituita, ma ove vi è stata, questa è stata, negli ultimi 30 anni, quella delle correnti di centrodestra con i laici di centrodestra, e soprattutto senza nessun disegno strategico di intralciare questo o quel politico o questa o quella maggiornaza. Di tanto, dati alla mano, se ne dovrebbero fare una ragione sia Palamara sia i paladini del suo “Sistema”, i quali dovrebbe chiedere scusa invece di uscirsene con frasi che sottintendono un generale ricorso alla prassi della raccomandazione presso il potente capo corrente di turno, perché questo, semplicemente, non corrisponde alla realtà della magistratura italiana. Spieghi, piuttosto, Palamara, come è arrivato alla indicazione di capi di uffici le cui nomine sono state annullate in sede amministrativa, o di personaggi addirittura sotto processo per gravi reati commessi nello svolgimento delle funzioni.
La realtà appare un’altra, e dall’indagine di Perugia emerge chiaramente, in senso esattamente opposto alla “guerra” tra poteri che si vorrebbe accreditare.
C’è stato (e si spera non ce ne siano più) un suo esponente associativo apicale, quale era Palamara, che ha ritenuto di contrattare, con esponenti politici ben determinati, di cui uno indagato, estranei al Csm, la nomina di vertici di uffici giudiziari di procura. E questo è il motivo che ne ha determinato l’espulsione dalla magistratura, non altro; neppure le deprecabili plurime chat e telefonate tese a determinare nomine di vari magistrati ansiosi di fare carriera, e quindi a contattare l’esponente associativo più potente tra il 2008 e il 2018, di per sé suscettibili di gravi rilievi disciplinari, ma non in grado di determinarne la massima sanzione quale la rimozione. Quindi non è la “guerra” alla politica al centro del problema degli ultimi 20 anni, come ritiene erroneamente Galli della Loggia, probabilmente male informato, ma i tentativi di accomodamento e gli accordi sottobanco con la politica che sono, al di fuori del Csm, illeciti e riprovevoli come chi li ha gestiti.
Ciò posto, è utile chiedersi, ma alla fine la partita in gioco, qual è? A chi giova il polverone sollevato dal contenuto impreciso, generico, irreale, falso, emergente dal “Sistema”?
A questa domanda sembra rispondere l’intervistatore, con il significato recondito di un’altra domanda, contenuta nell’Antefatto (pagina 11): “Può essere che il malcostume e la modestia etica di cui oggi parla Mattarella abbiano infettato, oltre alle nomine, anche inchieste e processi che negli ultimi venti anni, da Mastella a Berlusconi, da Renzi a Salvini, hanbno riguardato e riguardano vita e morte di governi legittimamente eletti?”.
Ecco il punctum dolens. La questione morale in Magistratura usata per porsi il dubbio (retorico, sembra) se siano delegittimate indagini e processi riguardanti esponenti politici.
Se questo è il piano inclinato parallelo alla questione-Palamara, allora lo si poteva dire subito; prepariamoci, magari approfittando del ritrovato clima di unità politica da salvezza nazionale, salute pubblica o come la si vuole chiamare, a un nuovo corso di riforme ordinamentali stile inizio anni 2000, tutte puntualmente franate non per colpa della magistratura, caro prof. Galli della Loggia, ma per fragilità dei progetti o per incostituzionalità degli stessi.
Il disegno sotteso, sembra di capire, è sempre quello di rivedere l’assetto della magistratura al fine di porre i “Leoni” della Procura sotto il “Trono” del governo, allo scopo di addomesticarne gli istinti contaminati dall’art. 3 della Costituzione, che nel richiamare l’uguaglianza dei cittadini innanzi alla legge, non prevede trattamenti di favore per il politico di turno (a meno che tale trattamento non glielo voglia concedere il singolo magistrato, magari per ricambiare qualche favore di carriera). Ma bisognerebbe ricordare che tutti gli sforzi sulla modifica dell’assetto costituzionale dei poteri è sempre destinata a produrre effetto sulla giurisdizione e sulla dimensione ed effettività della tutela dei diritti individuali, depotenziandoli, soprattutto quando si tratta di soggetti deboli.
La magistratura, infatti, a parte singoli casi agli onori delle cronache di soggetti arrestati e condannati per gravi reati, in quanto tali da espungere dalla categoria al più presto, non è un casta da tutelare in sé, ma un gruppo che, unitamente alla negletta magistratura onoraria (quest’ultima ai margini di qualunque progetto di riforma, qualunque sia la maggioranza politica al governo), provvede ad un servizio tra straordinari sacrifici e condizioni proibitive (soprattutto in tempi di emergenza sanitaria), spesso in condizioni ambientali e logistiche difficili e precarie (come ad esempio da alcuni anni a Bari). Pertanto, sono le norme processuali e le condizioni di lavoro che andrebbero tutelate con interventi strutturali efficaci, al fine di potenziare la giurisdizione e la resa in termini di tutela dei diritti dei cittadini, in qualunque ruolo essi si trovino, nel penale quanto nel civile e nel lavoro.
Una “normalizzazione” della magistratura, magari sull’onda della vicenda-Palamara, strumentalizzandone i lineamenti effettivi, va nella direzione opposta rispetto a quella auspicata. E questa, oltre all’emergenza sanitaria e a quella sociale ed economica, è la terza grave emergenza del Paese: quella della effettività della giurisdizione in senso democratico e anticlientelare. Immaginiamo che i prossimi spunti di riforma, approfittando delle vicende connesse al caso-Palamara, potranno essere la sottrazione al pubblico ministero del potere di direzione della polizia giudiziaria nel corso delle indagini, la riproposizione di meccanismi concorsuali di carriera governati fuori dall’autogoverno, o affidati al caso, lo svuotamento del Csm se non la sua duplicazione tra giudici e pubblici ministeri (soluzioni già più volte in passato prospettate).
Sarebbe il caso di denunciare qualunque tentativo di delegittimazione, ma al contempo combattere senza tregua la degenerazione etica interna alla magistratura rivelata dalle indagini degli ultimi anni, e che hanno visto al centro casi di corruzione, concussione e casi di traffici di influenze di notevole gravità. Sono queste le vicende che incidono sulla credibilità della magistratura, piuttosto che fantomatiche quanto inesistenti strategie di contrasto alla politica, vive forse solo nella fantasia di chi le evoca.