Sinceramente non sono d’accordo con chi considera la lista dei ministri del governo Draghi, ‘buona per i tecnici’. La compagnia della tecno-banality, che va dal neoliberista in ritardo di qualche decennio Vittorio Colao, quello che con le sue nullaggini infiocchettate ha messo in fuga Mariana Mazzucato, al solito pompierista di BankItalia. Specie alla luce di quanto – sempre ieri – scriveva Laura Margottini in un efficace ritratto del maggiormente qualificante fra questi “buoni tecnici”: lo spregiudicato (a dir poco) zar della transizione economica Roberto Cingolani. La salamandra che ha saputo attraversare il fuoco di infinite polemiche facendo sistematicamente scena muta, forte della potenza di fuoco del suo “ufficio voci” (vulgo, Relazioni Esterne) ricco del miliardone di euro finiti nelle casse dell’Istituto Italiano di Tecnologie grazie alla cornucopia di un apparentemente incomprensibile investimento pubblico.

Anni fa per ben due volte sono stato invitato a un incontro col Cingolani in IIT, nella desolazione dell’inselvatichita collina di Morego sede dell’istituto (scelta che contraddice ogni criterio insediativo internazionale, che indica la collocazione ideale dei milieux d’innovazione al centro di ricche reti di relazioni e scambi interpersonali. Come testimoniava Steve Wozniak, co-fondatore della Apple: “Le conversazioni serali al bar Walker’sWagon Wheel di Mountain View hanno fatto per la diffusione dell’innovazione tecnologica più di tanti seminari a Stanford”). Il motivo di quell’improvvisa attenzione nei miei confronti nasceva da un dialogo con il loro responsabile della robotica, pubblicato tempo addietro sul quotidiano a cui collaboravo; che alla mia domanda su quante start-up fossero state attivate dalle loro ricerche, mi aveva risposto in un soprassalto di sincerità: “Probabilmente le tre trattorie che danno da mangiare ai nostri ricercatori”.

Mi ritrovai così al cospetto del celebre Cingolani, un ometto dall’aria dimessa ma con un’evidente attitudine avvolgente alla seduttività verso l’interlocutore. Sicché partì con un’interminabile sequela di attestati e pubblicazioni accademiche. Tanto da doverlo interrompere spiegandogli che tali successi formali non mi interessavano; mentre quanto mi premeva appurare erano le imprese e la nuova occupazione create dalla loro missione statutaria di trasferimento tecnologico. La spiegazione fu stupefacente: il committente politico chiedeva ben altro; qualcosa come un profilo prestigioso. Per questo mi permisi di proporgli qualche iniziativa comune per sensibilizzare le istituzioni regionali al ruolo di orientatore democratico della ricerca locale. E tutto finì lì.

Per questo continuai a scrivere di IIT come di un’occasione mancata per il territorio, soprattutto dato il flusso di denaro pubblico che l’alimentava. E viste le continue lamentele da parte del loro ufficio voci presso la direzione del mio giornale, proposi ufficialmente un confronto pubblico in un teatro cittadino sul ruolo effettivo svolto da IIT. La risposta di Cingolani fu che lui si confrontava solo con gli scienziati. Tanto da farmi replicare che lo scienziato ero io – in quanto sociologo – mentre lui era un impresario. Comunque misi presto il cuore in pace: in fondo a me era ancora andata bene, visti gli hackeraggi partiti da un computer IIT a danno della senatrice a vita Elena Cattaneo.

Insomma, alla faccia di Beppe Grillo, le presumibili attese da questi “buoni tecnici” parrebbero solo un po’ di effetti speciali e tante furbate illusionistiche.

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