La vicenda dell’ex Ilva piomba subito sul tavolo del neo-ministro dello Sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti. Dopo la sentenza del Tar di Lecce che ha ordinato lo spegnimento dell’area a caldo del siderurgico tarantino entro 60 giorni, il successore di Stefano Patuanelli ha convocato i sindacati al ministero alle 14.30 di venerdì. Fiom, Uilm e Fim avevano inviato una lettera al Mise, al ministro del Lavoro, a quello della Transizione ecologica e al Mef chiedendo un incontro urgente dopo la pronuncia dei giudici amministrativi che ritengono ci sia ancora una “situazione di grave pericolo” per la salute dei cittadini. I sindacati avevano ricordato che l’avvio della fermata “avrà come conseguenza la distruzione graduale e irreversibile degli impianti coinvolti, il “blocco di tutta la produzione di laminazione” per mancanza di acciaio, la “sospensione di tutte le operazioni di bonifica” e degli investimenti di riconversione ambientale previsti.

La sentenza del Tar è arrivata a poche settimane dal via libera dell’Antitrust europeo all’ingresso di Invitalia nel capitale di AmInvestco, la società attraverso cui ArcelorMittal ha preso in affitto gli impianti che formalmente restano ancora di Ilva in amministrazione straordinaria. Il termine di 60 giorni concesso dal giudice amministrativo per ottemperare all’ordinanza sindacale scade il 14 aprile, ma l’azienda – che pure ha annunciato un ricorso al Consiglio di Stato – è chiamata comunque a predisporre entro quella data le procedure tecniche per una eventuale conferma allo stop degli impianti. Due fronti che, dicono i rappresentanti dei lavoratori, richiedono “al più presto le necessarie e opportune soluzioni”, poiché i ritardi “stanno determinando tensioni sociali” negli stabilimenti, scrivevano i segretari Francesca Re David, Rocco Palombella e Roberto Benaglia. Preoccupazione è stata espressa anche da Confindustria e Federacciaiai, che ritengnono ci sia in gioco non solo lo stabilimento di Taranto ma il futuro della siderurgia italiana.

La fermata forzata degli impianti, sottolineavano negli scorsi giorni fonti legali vicine al dossier ArcelorMittal, “senza la disponibilità di una stazione di miscelazione azoto e metano, non permetterebbe la tenuta in riscaldo dei forni e ne conseguirebbe il loro crollo e quindi la distruzione dell’asset aziendale di proprietà di Ilva in Amministrazione Straordinaria”. Le stesse fonti evidenziavano “rischi per la sicurezza” e il fatto che ci sarebbe un “totale blocco della produzione dello stabilimento, qualificato di ‘interesse strategico’, l’unico sul territorio nazionale a ‘ciclo integrato’ per la produzione di acciaio”.

Confindustria sottolinea quindi che “interrompere la produzione e la fornitura dell’acciaio prodotto a Taranto mette in seria difficoltà le intere filiere della manifattura italiana che ne hanno necessità”. Inoltre si avrebbe “un sicuro e rilevante aggravio della bilancia commerciale nazionale, poiché occorrerebbe importare l’acciaio dall’estero”. Ed ancora: “La chiusura nell’immediato vanificherebbe tutti gli sforzi compiuti per limitare il numero di esuberi, mettendo a serio rischio migliaia di lavoratori e famiglie” e sarebbe anche “vanificato in maniera traumatica e definitiva il processo di investimenti intrapreso per la sostenibilità ambientale della produzione”.

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