La somiglianza con Alice, che 40 anni or sono, di questi tempi, con Per Elisa trionfava sul palco del festival di Sanremo, è un bel viatico per la cantautrice Angelica, alias Angelica Schiatti, che ha da poco pubblicato il suo secondo disco intitolato Storie di un appuntamento. Un disco personale, intimo, composto da otto brani che mescolano un pop dalle sonorità retrò insieme con l’elettronica. E chissà, se in futuro, un appuntamento che l’aspetta è proprio quello con la tradizionale manifestazione canora del Belpaese.
Dopo essere stata per anni la frontwoman della band Santa Margaret, AngelicA ha deciso di mettersi in proprio e nel nuovo album sono molti i riferimenti al proprio recente passato. Infatti, racconta, “le canzoni parlano di appuntamenti col destino, appuntamenti con gli amori passati, presenti e futuri. Appuntamenti disdetti, cercati, programmati, di lavoro, con gli amici, al buio, per strada. Ma l’appuntamento è in realtà con me stessa e con tutte quelle cose che avevo fatto finta di non vedere, ma che negli ultimi due anni sono riuscita ad affrontare e a risolvere”, perché “l’appuntamento con se stessi vale più di mille altri appuntamenti”.
Qualcuno ha scritto che l’incertezza è il rifugio della speranza: tu hai da poco pubblicato il tuo secondo disco, in un periodo come questo, caratterizzato dall’emergenza pandemia. Quali sono le tue sensazioni al riguardo?
Chiaramente la situazione è inedita ed è difficilissima per la musica, è un terreno sconnesso dove si cammina a fatica. Quando è scoppiata la pandemia ero già nel mezzo dei lavori per questo disco e mi sembrava eticamente giusto sia per me, per chi lavora con me e per chi ascolta musica farlo uscire comunque. Alla fine non credo faccia male a nessuno, forse solo a me.
Lo hai intitolato Storie di un appuntamento, ma considerando che è da un anno che è molto difficile organizzarne… di appuntamenti.
Molto difficile organizzare appuntamenti, così come concerti, perciò l’appuntamento è in realtà con me stessa e con tutte quelle cose che avevo fatto finta di non vedere ma che in questi due anni sono riuscita ad affrontare e a risolvere, l’appuntamento con se stessi vale più di mille altri appuntamenti.
Ti sei fatta conoscere dal grande pubblico come cantante di una band, i Santa Margaret: mi racconti quali sono le tue impressioni riguardo le differenze fra la carriera da solista e con la band?
Due universi molto distanti, nella band io ero la voce, ma il mondo musicale non mi apparteneva, non avevo grandi possibilità di esprimermi se non sul palco perché i ragazzi sono musicisti fantastici ma io ero molto immatura. Con Quando finisce la festa mi sono ritrovata, anche un po’ spersa, ma completamente libera di fare quello che mi piaceva ed esprimere ciò che desideravo.
Che atmosfera si respirava in studio durante le registrazioni?
Molto casalinga, gran parte del disco l’abbiamo registrata in preproduzione in uno studio-casa sui Navigli, intervallando le registrazioni a pause caffè e sigaretta, pranzi in via Meda e sessioni di kundalini yoga. Eravamo molto sereni, poi è arrivata la pandemia, abbiamo fatto tutto da remoto e sono rientrata in studio in estate per fare le voci e ultimare le produzioni, ma le mascherine e l’ipocondria a quel punto avevano sostituito la leggerezza della prima fase di lavorazione.
Come descriveresti la tua musica e il tuo stile? E quali credi siano gli ingredienti giusti per fare della buona musica?
Non saprei come descriverla a parole, in fondo la musica va ascoltata e ognuno si fa il proprio personale viaggio, però sono abbastanza certa che non ci sia un disco simile a Storie di un appuntamento in giro, non mi piace seguire le mode e credo che sia prezioso dire la propria e “vestirla” con il vestito adatto. In questo caso c’è un po’ di psichedelia, di dream pop, di cantautorato italiano retrò e pure tanta elettronica, elemento che nel disco prima era completamente assente. L’ingrediente giusto per fare della buona musica forse è proprio seguire il proprio gusto a prescindere dagli altri, così perlomeno sarà buona musica per chi la fa, che già è una buona partenza.
I testi come nascono e quali storie raccontano?
I testi parlano tutti di cose realmente accadute, non c’è nulla di inventato e nessun riferimento è casuale.
Trattandosi di testi molto personali, quanto costa mettere se stessi in un album?
Tanto, la fase della scrittura spesso è un’agonia. Però è una possibilità di scoprire dei lati di te su cui lavorare, o di capire a posteriori tante cose. Le canzoni sono fotografie di momenti precisi di vita, non sempre fa piacere rivederli/riascoltarle.
Cos’hai letto e ascoltato durante i mesi di lavorazione dell’album?
Ho letto molto poco in quel periodo perché non avevo il tempo se non prima di dormire, ma poi era sempre troppo tardi quindi, nonostante io sia un’avida lettrice, di essermi limitata a Diabolik durante le registrazioni. Ascolti invece non ricordo, credo fossero usciti gli Strokes e i Tame Impala quindi ero un po’ in fissa con quei dischi però gli ascolti durante le registrazioni non sono influenti alle registrazioni, erano più ascolti ludici da fare nel tragitto casa/studio.
C’è qualche artista con cui ti piacerebbe collaborare?
Sì certo, molti, mi piacerebbe tantissimo provare a fare qualcosa con Populous.
Su cosa credi rifletterà chi ascolta il tuo disco?
Ognuno si fa il proprio viaggio, già arrivare a riflettere dopo aver ascoltato un disco è un segno buono. Sicuramente in questo disco ci sono tanti spunti di riflessione perché è davvero nato in un momento di grande grande cambiamento, quindi materiale da cui partire c’è.