La procedure restano ancorate ai moduli cartacei. Tanto che alcuni professionisti hanno avviato cause contro gli enti perché aprano una pec. Al ministero per l'Innovazione tecnologica affidato ora a Colao vedono il bicchiere mezzo pieno: “Passi da gigante, cittadini con identità digitali Spid saliti a 17 milioni". Ma su circa 23mila pubbliche amministrazioni solo 5.479 ne consentono l'uso come sistema unico di identificazione: avrebbero dovuto essere tutte pronte entro il 28 febbraio
A quasi un anno dal lockdown, la digitalizzazione della Pubblica amministrazione resta ancora un miraggio. Ma il peggio è che l’Italia rischia anche di perdere l’occasione per proiettarsi verso una nuova economia ed amministrazione digitale grazie ai fondi dal Recovery plan. Non a caso Mario Draghi nel suo discorso per la fiducia ha citato quella della pa tra le riforme urgenti anticipando che “dovrà muoversi su due direttive: investimenti in connettività con anche la realizzazione di piattaforme efficienti e di facile utilizzo da parte dei cittadini e aggiornamento continuo delle competenze dei dipendenti pubblici”. Urgenze di cui dovrà occuparsi il neo ministro Renato Brunetta che a riformare la pa ci aveva già provato nel 2008.
“Se mi chiede che cosa è accaduto ad un anno dal lockdown, le rispondo che nella pubblica amministrazione sono state comprate un po’ di macchine, abbiamo fatto un po’ di app, abbiamo aumentato gli strumenti di accesso ai servizi della pubblica amministrazione – spiega Donato Limone, docente di innovazione digitale negli enti locali all’Università Unitelma Sapienza di Roma –. Ma i modelli organizzativi, la semplificazione e la qualità dei servizi della pubblica amministrazione sono rimasti quelli che erano: se da un lato il cittadino ha la possibilità di accedere con strumenti innovativi, dall’altra parte non trova procedure e servizi innovativi, nativamente digitali. Purtroppo, anche in quest’anno di grande cambiamento, non è stata adottata una politica di semplificazione e digitalizzazione della burocrazia”.
Così accade che ancora oggi enti in prima linea nella trasformazione digitale del Paese siano in realtà fortemente ancorati a procedure vecchie, legate al mondo della carta. Qualche esempio? All’inizio del lockdown, al Tribunale civile di Roma, l’ufficio decreti comunicò che per ottenere delle copie delle sentenze c’era una procedura da seguire. Innanzitutto una pec per ogni sentenza con autocertificazione e documentazione attestante l’urgenza. Poi bisognava attendere la risposta dell’ufficio con data e ora dell’appuntamento per ritirare il materiale cartaceo. Previa presentazione della stampata della risposta dell’ufficio competente da consegnare in loco. Di più si poteva chiedere solo una domanda scritta a mano. Con tanto di sigillo. Post-lockdown la procedura è diventata telematica, ma l’archivio resta cartaceo. In barba alla legge che per la pubblica amministrazione vorrebbe documentazione nativa digitale già dagli anni ’90.
Inoltre, mentre i professionisti, legali, commercialisti e consulenti del lavoro, da anni si sono ormai dotati di pec con cui poter lavorare, la pubblica amministrazione ha continuato a fare come meglio riteneva. Al punto che alcuni gruppi di professionisti hanno avviato cause contro gli enti per ottenere che si aprano una pec. Ad aprile 2020 il Tar della Calabria ha condannato un’azienda ospedaliera a dotarsi di posta certificata per “permettere agli avvocati di notificargli gli atti tramite pec”, spiegano gli avvocati Roberto Nicodemi e Giorgia Celletti. “Il Centro studi Ordine degli avvocati Roma (…) ha deciso di predisporre analoghe azioni giudiziarie nei confronti di tutte le Pubbliche Amministrazione del circondario, affinché si adeguino alla normativa vigente”, si legge in una nota dei due legali dell’estate scorsa. Un paradosso che racconta quanta strada si debba ancora fare per semplificare e digitalizzare la pubblica amministrazione rendendola trasparente ed efficiente. Tagliando cioè, secondo le stime di Confindustria, almeno 34 miliardi di costi per le imprese ogni anno.
Al ministero per l’Innovazione tecnologica affidato ora a Vittorio Colao vedono però il bicchiere mezzo pieno. “Negli ultimi mesi abbiamo fatto passi da gigante come testimoniano i dati sull’avanzamento digitale” precisano fonti ufficiali, che ricordano come le identità digitali Spid siano salite a 17 milioni. Su circa 23mila pubbliche amministrazioni poco meno di un quarto – 5.479 – consente oggi l’uso del Sistema pubblico di identità digitale. Secondo i dati forniti da Agid, 5174 di questi enti sono comuni, unioni di comuni e loro consorzi. Appena 51 gli istituti di istruzione statale, 44 le Federazioni nazionali di Ordini, collegi e consigli professionali, 25 le Province e loro consorzi e 23 tra Regioni, province autonome e loro associazioni. Seguono comunità montane (19) e presidenza del consiglio, ministeri, avvocatura dello Stato (18). Fanalino di coda i teatri stabili (appena uno), ma anche i consorzi di ricerca interuniversitaria (1), le Forze di Polizia (2), gli enti nazionali di previdenza (3), le camere di commercio (3). Per chi è rimasto indietro c’è ancora un po’ di tempo per recuperare.
Fra pochi giorni (il 28 febbraio) il ministero per l’innovazione tecnologica tirerà la linea su quanto è stato fatto sulla base del decreto semplificazione che, entro questa deadline, intimava alle pubbliche amministrazioni l’integrazione di Spid e della Carta d’identità elettronica (Cie) come sistema unico di identificazione per l’accesso ai servizi. Non solo: prevedeva anche l’integrazione della piattaforma Pago Pa per i sistemi di riscossione e l’avvio di processi digitali per rendere disponibili i servizi sull’app Io. Le amministrazioni in regola e che ne hanno fatto richiesta potranno così ottenere la prima tranche (20%) dei 43 milioni stanziati con il Fondo per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione. Iniziativa cui, secondo quanto riferisce il ministero, hanno aderito 7.246 comuni, il 92% del totale.
La sfida più importante deve però ancora arrivare: ciò che potrà cambiare le carte in tavola sono infatti i fondi del Recovery. “Il problema è però che il piano andrebbe scritto in modo da assicurare un cambiamento reale delle modalità operative della pubblica amministrazione – riprende il professor Limone – Deve essere previsto un raccordo fra l’esigenza di riformare l’organizzazione burocratica e semplificarla e l’esigenza di digitalizzare la burocrazia per renderla trasparente, funzionale, a servizio reale di cittadini e imprese. Sono quindi necessari vincoli finalizzati alla reale costruzione del futuro digitale del Paese. Se io continuo a comprare tecnologia e non semplifico, è evidente che non andiamo da nessuna parte, come del resto è accaduto negli ultimi trent’anni. Oggi in tantissimi comuni italiani per presentare un’istanza, c’è ancora la modulistica di carta che poi si firma a mano e si spedisce. Ma questa non è un’istanza nativa digitale”.
Per Limone, se si vuole davvero cambiare bisogna puntare sulla cultura del dato nella pubblica amministrazione per evitare che al cittadino vengano continuamente richieste le stesse informazioni da diversi rami della pubblica amministrazione. “Un passo in avanti importante è stato fatto con l’anagrafe demografica che è stata finalmente digitalizzata da Sogei e che potrebbe essere la base di riferimento per evitare che al cittadino vengano richieste sempre gli stessi dati dai vari enti – conclude l’esperto -. Ma è necessaria una cultura del dato. Noi forniamo questi dati alle amministrazioni che si perdono nel buio, mentre è importante che vengano acquisti e gestiti”. Di qui, con la semplificazione e i fondi del Recovery plan, la reale possibilità di trasformare e snellire la burocrazia italiana, liberando risorse da destinare a nuovi investimenti capaci di generare crescita e occupazione.