Società

E se l’Italia diventasse la meta ideale di smart workers e nomadi digitali?

di Marta Coccoluto

Furono già Petrarca e Dante a definire l’Italia “il Bel Paese”, un’espressione poetica che racchiude quanto ha sempre fatto dell’Italia una delle nazioni più belle al mondo – e più sognate, la prima destinazione turistica al mondo fino agli anni Settanta, oggi dietro la Spagna -: storia, cultura, bellezze naturali e paesaggistiche, cibo, clima. E se ancora è difficile mettere a fuoco con chiarezza gli scenari relativi ai viaggi post emergenza sanitaria, i mesi che hanno preceduto la seconda ondata hanno lasciato intravedere aspetti importanti.

Primo su tutti che difficilmente si tornerà “come prima”. La pandemia ha riscritto la scala delle nostre priorità come viaggiatori, ci ha messo davanti le nostre fragilità, acuito la nostra sensibilità e resi più esigenti, in termini di sicurezza personale e di esperienze. Quando torneremo a viaggiare dovrà essere un momento significativo, di grande valore e di riconnessione con i luoghi, ma soprattutto con gli altri. Non ci sentiremo più turisti, saremo più viaggiatori, certamente vorremmo sentirci persone.

In un mondo dove il virus può colpire ovunque, il viaggiare ha perso la sua tradizionale connotazione di evasione dall’ordinario e di fuga dal quotidiano. Anzi, la possibilità di lavorare dove si vuole aperta dalla diffusione sempre più ampia del lavoro da remoto e dallo smart working all’interno delle organizzazioni sta intrecciando sempre più saldamente viaggio e vita. Vivere viaggiando, che non vuol dire necessariamente vivere zaino in spalla, ma scegliere dove vivere in base alle proprie esigenze personali senza sacrificare l’aspetto e la soddisfazione lavorativi, sta diventando una possibilità concreta per un numero sempre più ampio di persone. Ed è già una realtà per molte.

In questo senso, il Covid-19 ha funzionato come un potentissimo acceleratore di cambiamenti importanti e di trasformazioni profonde e trasversali, che seppure già in atto, avrebbero atteso anni per compiersi. Il concetto stesso di nomadismo digitale sta cambiando pelle, non incontra più solo l’entusiasmo dei giovani millennials e di chi decide di reinventare la propria vita.

Quanti durante la scorsa estate hanno scelto di trascorrere le vacanze e poi continuare a lavorare da luoghi che fino a pochissimo tempo fa erano considerati defilati e minori, riscoprendo la bellezza di soggiornare in alberghi diffusi mescolandosi tra gli abitanti, di lavorare da piccoli borghi, nelle seconde case sul mare come in collina e in montagna, apprezzando il valore di una vita più autentica e sostenibile? Certo, è stata prima di tutto una risposta all’esigenza di sentirsi “al sicuro”, di garantire il distanziamento sociale, ma c’è di più: questa sorta di “prova generale” ha dimostrato alla prova dei fatti che è una via percorribile.

E potrebbe rappresentare anche una delle chiavi per ripensare al futuro dell’Italia come la meta ideale degli smart workers e dei nomadi digitali di tutto il mondo, un nuovo target globale, in crescita ed evoluzione continua. Servirà una visione condivisa per proporsi a livello internazionale, con una proposta chiara e strutturata, lontana dalle iniziative che in questi mesi sono spuntate in ordine sparso per provare a fare un po’ di marketing turistico, sfruttando una tendenza che non si conosce realmente. A cominciare dai motivi e dalle esigenze, non solo tecnologiche, che spingono i professionisti a spostarsi in luoghi e paesi diversi per lavorare da remoto.

Lascia ben sperare la nomina a ministro per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale di Vittorio Colao, già a capo della task force voluta dell’ex premier Giuseppe Conte per redigere un piano per la ricostruzione post pandemia. Nel piano pubblicato a giugno si richiamava l’esigenza di “un’azione di radicale di digitalizzazione e innovazione” grazie a cui l’Italia “potrà effettuare un salto in avanti in termini di competitività del sistema economico e di qualità di lavoro e di vita delle persone”.

Il riconoscimento del ruolo di motore economico e sociale all’innovazione digitale, definita “una necessità assoluta”, è fondamento decisivo per non sprecare questa crisi e rilanciare l’Italia e farne un “Bel Paese digitale”.