I migranti non c’erano ma negli elenchi la loro firma non mancava mai. In alcuni casi, invece, veniva attestata la presenza, contemporaneamente, in strutture d’accoglienza lontane chilometri. Risultava pure che bevevano molta acqua minerale, oltre 15 litri ciascuno ogni giorno. Tutto messo nero su bianco su fatture e registri. In questo modo, secondo la procura di Agrigento e la guardia di finanza, l’associazione culturale di promozione sociale Omnia Academy avrebbe truffato lo Stato, intascando illecitamente più di un milione di euro. Soldi provenienti da contributi e finanziamenti pubblici, erogati dal ministero dell’Interno nell’ambito dei progetti per il sistema dei richiedenti asilo e dei rifugiati, per fronteggiare i continui arrivi di migranti in Sicilia tra il 2011 e il 2016. Tra le sei persone indagate, a cui i militari hanno sequestrato una villa con piscina, ci sono Francesco Morgante e Anna Maria Nobile. Marito e moglie ma anche presidente e rappresentante legale dell’associazione con sede a Favara, in provincia di Agrigento. Gli altri indagati sono Giovanni Ciglia, addetto a curare i rapporti con gli enti pubblici, Giuseppe Butticè, delegato ai conti bancari, Alessandro Chianetta e il ragioniere Massimo Tagano. Nei loro confronti è scattato il divieto di contrarre con la pubblica amministrazione oltre all’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria due volte la settimana.
Morgante nelle carte dell’inchiesta viene indicato come colui che avrebbe promosso e costituito il “sodalizio criminale” basato su “condotte truffaldine”. Una “cupola” dell’accoglienza secondo il magistrato Salvatore Vella. Dalla scrivania di Morgante sarebbero passati tutti gli atti e i documenti riguardanti l’associazione e gli ospiti, con i quasi 90 dipendenti costretti ad adeguarsi alle direttive del presidente per salvare il posto di lavoro. Qualcuno però con le forze dell’ordine ci ha parlato, svelando come funzionava il presunto sistema illecito. Al resto hanno pensato gli inquirenti, incrociando rendiconti, fatture e i documenti provenienti da 12 comuni, sparsi tra le province di Agrigento e Caltanissetta. Gli stessi in cui l’associazione presentava progetti di soccorso e gestiva numerosi centri d’accoglienza. Comuni “non particolarmente attenti” secondo la procura, nonostante un quadro illecito “abbastanza vistoso”.
Uno dei capitoli della truffa riguarda i migranti fantasma e le diarie giornaliere pagate dallo Stato a chi si occupa dell’assistenza, anche tramite i cosiddetti pocket money dati direttamente ai rifugiati. Emblematico il caso di un 19enne fermato dalla polizia a Catania per spaccio di droga alla vigilia di Natale del 2014. Per i due mesi successivi l’uomo, originario del Gambia, si è regolarmente presentato negli uffici della questura etnea a firmare l’obbligo di comparizione, contemporaneamente però risultava presente anche nel centro d’accoglienza agrigentino di Casteltermini, distante 190 chilometri. Vicenda simile a quella di un migrante arrestato dai carabinieri a Parma e finito in carcere ma che per settimane continuava a risultare sotto le cure dell’associazione. In questo modo, secondo i magistrati, Morgante si sarebbe garantito le erogazioni di denaro pubblico. In mezzo alle mancate comunicazioni di allontanamento ci sarebbero stati pure casi di migranti assenti per qualche giorno ai quali però, al rientro, veniva concessa la possibilità di firmare il registro presenze per le giornate precedenti. Altri risultavano presenti ma in strutture d’accoglienza chiuse ormai da mesi.
Un tema a parte è quello delle presunte fatture false. Gli inquirenti hanno acquisto documenti contabili per l’acquisto di 46mila confezioni d’acqua con bottiglie da due litri. Per ogni ospite, facendo qualche calcolo, Omnia Academy rendicontava un consumo di 15 litri al giorno. Il titolare della società che si sarebbe occupata della fornitura ha negato qualsiasi tipo di rapporto commerciale alludendo pure alla presenza in fattura di un format grafico diverso da quello utilizzato di solito. Due fatture, risalenti al 2014 per un importo di 169mila euro, risultano invece intestate a un’azienda di calzature che però aveva abbassato le saracinesche cinque anni prima. False sarebbero state anche 34mila euro di fatture per una presunta fornitura di carni. La società in questione, sentita dagli investigatori, ha fatto notare come nei documenti acquisiti mancasse un numero nella partita Iva, oltre al fatto che il logo utilizzato nei documenti era particolarmente sbiadito. Per il giudice sarebbe concreto il rischio di “reiterazione dei reati” da parte degli indagati. Considerazione che ha dato il via libera alla scelta di imporre il divieto di contrarre con le pubbliche amministrazioni e che prende spunto dalla scoperta di una nuova associazione ritenuta fotocopia a quella finita nei guai ma registrata con un nome diverso.