Il Paese pervaso da un sostanziale stallo fitto di tensione. Ieri è morta dopo dieci giorni di agonia una dissidente colpita il 9 febbraio da un proiettile alla testa
A Mandalay due manifestanti sono stati uccisi e almeno trenta persone sono rimaste ferite nel corso delle proteste contro il colpo di Stato che ha destituito il governo della leader Aung San Suu Kyi. Una delle vittime era minorenne. Le sparatorie sono avvenute vicino al molo di Yadanabon, dove all’inizio della giornata le forze di sicurezza hanno usato gas lacrimogeni e proiettili di gomma contro i manifestanti. Intanto il portavoce del Dipartimento di Stato Usa Ned Price ha ribadito l’appello ai militari di astenersi dalla violenza contro manifestanti pacifici, dopo la morte avvenuta ieri di una dissidente, Thwet Thwet Khine, dopo dieci giorni di agonia. Era stata infatti colpita alla testa da un proiettile durante una protesta a Naypyidaw lo scorso 9 febbraio.
Tra la protesta e l’esercito, in un contesto di manifestazioni quotidiane e forze di sicurezza che intimidiscono i dissidenti, c’è da giorni un sostanziale stallo fitto però di tensione. Dipendenti statali si rifiutano di lavorare, automobilisti rallentano apposta veicoli militari, hacker prendono di mira le aziende controllate dall’esercito, e dimostrazioni vengono organizzate in poco tempo grazie al tam tam dei social media. Se a Yangon la situazione è però calma da giorni, si segnalano crescenti violenze dei soldati in località meno coperte dai media e dalla forte presenza di minoranze etniche, in particolare la città di Myitkyina, nel nord.
È una situazione di caos che l’esercito, abituato all’impunità e convinto di essere l’unica istituzione capace di unire un Paese con conflitti attivi fin dall’indipendenza, probabilmente non aveva preventivato. Mentre Aung San Suu Kyi è sotto processo con accuse farsesche (importazione illegale di walkie-talkie a la violazione delle norme di sicurezza per l’emergenza Covid-19) e altre centinaia persone arrestate per aver espresso il proprio dissenso, l’esercito sembra indeciso tra una repressione che distruggerebbe la sua già precaria reputazione e un passo indietro che saprebbe di sconfitta.
Il prolungamento di questa tensione quotidiana rischia in ogni caso di affossare un’economia già duramente provata dalla crisi causata dal coronavirus. Molte aziende straniere hanno già interrotto i legami con i militari, e si prevede un brusco calo degli investimenti stranieri. Le promesse del generale Min Aung Hlaing di tornare al voto alla fine dello stato di emergenza di un anno non convincono. Ma finora le pressioni internazionali non sembrano avere effetto sul nuovo uomo forte della Birmania, e nessuno capisce che tipo di assetto istituzionale ha davvero in mente per il futuro del Paese.