Televisione

Luisa Ranieri si racconta a FQMagazine: “Anche se fai molto, sei spesso considerata “la moglie di”… Ma le cose stanno cambiando”

"Io e Luca siamo due orsi (ride). Stiamo con la gente con cui stiamo bene e solo a volte sono persone che frequentiamo anche sul lavoro. Non siamo malati di feste o dei salotti", ha detto la bravissima attrice a proposito delle serate col marito Luca Zingaretti. Non solo, qualche anticipazione sulla serie di cui è protagonista: "È una donna moderna, che ha scelto il lavoro più che la vita privata, una decisione inedita per una quarantenne degli anni ’80" e tanto altro. Un ritratto inedito

Luisa Ranieri è uno di quei personaggi difficili da etichettare perché ha sempre preferito far parlare i suoi personaggi invece che raccontare troppo di sé. Incarna la filosofia del less is more, meno è meglio, non smania per esserci a tutti i costi, cammina in bilico tra la timidezza e una femminilità così sfrontata che naturalmente la mette al centro dell’attenzione. Anche quando non vorrebbe. «Ho sempre avuto un rapporto conflittuale con la mia fisicità. Ho fatto pace con me stessa solo dopo le due gravidanze», rivela a FQMagazine per il fattoquotidiano.it l’attrice, che sarà nel cast de È stata la mano di Dio, la nuova pellicola di Paolo Sorrentino, e tra le voci italiane del film Disney Raya e l’ultimo drago. In attesa di questi nuovi progetti, domenica 21 febbraio debutta con Lolita Lobosco, la nuova serie di Rai1 di cui è protagonista, quattro puntate al via da domenica 21 febbraio co-prodotte anche dalla società di Luca Zingaretti: tratta dai romanzi di Gabriella Genisi, racconta le vicende del vicequestore di Bari, una donna moderna, volitiva che insegue la giustizia a tutti i costi e non rinuncia al tacco 12 nemmeno durante le indagini.

Partiamo da una curiosità: come ha fatto una napoletana doc come lei a calarsi nei panni di una barese?
(ride) È stato un duro lavoro. Ha avuto un bravissimo coach con cui mi sono preparata un mese prima dell’inizio delle riprese. Mi sono esercitata con il dialetto, la cadenza e con i modi di dire. È stata un full immersion totale.

Il risultato?
Così buono che il barese mi si è attaccato addosso, tipo una cantilena. Ho fatto fatica a staccarmene e a un certo punto in testa avevo un macello. Quando sono tornata a casa, ho detto a mio marito: «Devo fare un corso di dizione al contrario per ripulire la dizione».

Come descriverebbe Lolita Lobosco a chi non ha letto i libri?
È una donna moderna, che ha scelto il lavoro più che la vita privata, una decisione inedita per una quarantenne degli anni ’80. Soprattutto per una donna del sud, in quegli anni, era più scontato che scegliesse il legame solido e la costruzione di una famiglia invece che il lavoro.

Quando la sua carriera decolla, lascia Legnano per tornare a Bari.
C’è questo senso latente di conflitto con la famiglia, in particolare con il padre, un ex contrabbandiere: per contrasto e per voglia di legalità, giustizia e senso etico, torna al sud per chiudere le finestre ancora aperte. È una donna realizzata, che fa pace col passato e diventa vicequestore.

Una degli snodi chiave della serie è la sua sfida ai pregiudizi: in un mondo maschile e maschilista, lei non rinuncia alla sua sensualità e a giocare con la malizia.
Non è una vera e propria sfida, è che non se ne cura proprio. Non vuole rinunciare alla sua femminilità perché non pensa di dover somigliare agli uomini per essere credibile. Nella serie c’è quasi l’esasperazione del tacco a spillo e il tacco 12 è una chiave di sfida ai cliché.

A Lolita capita anche di essere vittima del pregiudizio femminile e tenta di scardinarlo.
Sì, però lei è solidale, mai in conflitto. Quello di Lolita è un femminile che non ha pregiudizi verso le donne.

E lei è mai stata vittima di pregiudizi?
Sì, certo. Anche se hai fatto molto e ti sei impegnata al massimo, sei sempre considerata «la moglie di». Ma per fortuna le cose stanno cambiando e penso che questa serie sia un segnale importante: ho una mia identità professionale che rivendico con il lavoro e l’impegno.

A proposito del mondo femminile: è un cliché che la solidarietà tra donne non esiste?
Guardi, caratterialmente rifuggo sempre dalla competitività. Non fa parte di me. Se mi trovo a un tavolo con le donne e intuisco la competizione, mi sottraggo: non mi stimola, mi piace più la complicità e la solidarietà di genere. E le donne avvertono che non so essere una rivale ma piuttosto un’alleata.

Ha più amiche o amici?
Amiche e diversi amici gay. E non perché vada di moda dirlo, ma perché è un universo affettivo che frequento da quando ho tredici anni. Sin da ragazzina ho scoperto una certa vicinanza con gli omosessuali. In generale, mi piace la diversità, la non omologazione, mi diverte mettere assieme persone di mondi opposti e fare connecting people. Gli amici dicono di me che sono una donna accogliente: questo è un pregio e al tempo stesso un difetto.

Perché?
Perché capita che qualcuno ne approfitti. Ma è un tratto che mi viene con naturalezza e che non ho cambiato, anche se a volte ne pago le spese.

Luca Zingaretti, suo marito, è anche produttore della serie. È stato esigente sul set?
Sinceramente no. Lui era il produttore creativo e l’input per la serie è suo: lesse i libri di Gabriella Genisi e capì che c’era del potenziale, così ha acquistato i diritti. La società produce da vent’anni per il teatro e ha realizzato anche molti documentari. Sono stata io a dirgli: «Perché non troviamo storie anche per noi». Siamo un laboratorio d’idee.

Ci sono contatti in corso con altri editori, ad esempio Netflix?

Siamo in fase interlocutoria e siamo aperti a lavorare con chiunque sia interessato a ciò che proponiamo.

A proposito di Zingaretti, è curioso il passaggio di testimone su Rai1: dal Commissario Montalbano al vicequestore Lobosco. Prossimo ruolo?
(ride) Chissà, forse un magistrato.

Intanto Montalbano è arrivato a una fine clamorosa: con Il metodo Catalanotti, in onda l’8 marzo, si chiuderà un’era o secondo lei ci sarà spazio per un’altra puntata?
Onestamente non ne abbiamo parlato. Tutti i protagonisti della serie hanno più volte detto che era finita un’epoca. So che per Luca il 2019 è stato un anno doloroso, prima per la morte di Camilleri poi per quella di Sironi: si è preso sulle spalle la regia per portare avanti lo stile della serie ma emotivamente è stato complicato.

Mi spiega perché siete così allergici al gossip?
Perché siamo due orsi (ride). Stiamo con la gente con cui stiamo bene e solo a volte sono persone che frequentiamo anche sul lavoro. Non siamo malati di feste o dei salotti. Abbiamo poco tempo per stare assieme e in quel tempo ci godiamo la parte intima. In parte è una scelta caratteriale, in parte perché la famiglia è la nostra priorità.

Ogni volta che si tratteggia un suo profilo, è tutto un trionfo di «icona del sud», «donna mediterranea», «solare». Ci si riconosce?
Solare no, è un aggettivo che detesto perché vuol dire tutto e niente. Quanto al resto, in parte sì, soprattutto per ciò che riguarda l’attaccamento alle radici, la predisposizione a gestire il tempo in mondo diverso e per quei riti che in fondo appartengono a un fatto culturale.

Lolita Lobosco è una donna estremamente consapevole della sua sensualità e ci gioca senza timori. È un tratto caratteriale che le appartiene?
No, affatto. Ho sempre avuto un rapporto conflittuale con la mia fisicità, sono stata un’adolescente e poi donna in conflitto: ci ho fatto pace da quando sono nate le mie figlie. Sono tra quelle che hanno sempre voluto dimostrare di essere più brave che belle, studiando senza tregua per dire al mondo: «Ho conquistato questa cosa con le mie capacità e la mia testa, non per la mia fisicità». Ma la maternità ha avuto un beneficio enorme: ora sono rasserenata.

La sua è una carriera senza strappi o battute d’arresto. C’è qualcosa di cui si pente?
Non ho rimpianti o dispiaceri ed è una gran cosa. Però mi faccia dire una cosa: la mia non è una carriera lineare, piuttosto direi lunga, non in salita ma lenta. Sono stata ferma per molto tempo, soprattutto all’inizio, poi per un lungo periodo ho avuto solo piccoli ruoli: ci sono carriere scoppiettanti, la mia non si può definire tale. Per sette anni ad esempio non ho messo piede in Rai, non mi hanno mai chiamata nonostante venissi da ruoli importanti. Ho aspettato tanto le storie giuste e alla fine sono arrivate.

Oggi suo papà, che lei ha perso quando era molto giovane, cosa direbbe di lei?
(lungo silenzio) Non avrebbe mai voluto che facessi l’attrice ma alla fine gli sarebbe piaciuto il mio percorso. Penso che sarebbe molto fiero di me.

La Luisa Ranieri ragazzina chi sognava di diventare?
Un magistrato, perché mi sono sempre piaciuti i processi. Ma ha avuto la fortuna di avere un’insegnate d’italiano che mi fece appassionare al teatro e la folgorazione fu immediata.

Dalla folgorazione quando è passata all’azione?
In maniera del tutto involontaria: accompagnai un amico a iscriversi a una scuola di recitazione e mi presero. Ci sono rimasta imbrigliata, sono stata sopraffatta da questo lavoro, l’ho voluto e mi sono sacrificata. L’ho amato e lo amo senza inibizioni.

C’è spesso una velata malinconia nei suoi occhi o è un’impressione?
Non sbaglia. All’inizio della mia carriera un regista mi disse: «Hai un sorriso che illumina e degli occhi che ti fanno piangere». Ma sbagliò tutto, non c’era nulla di ciò che aveva percepito. Sono timida e mi accompagna una malinconia dolce che mi piace coltivare.

Ultima curiosità. Come Lolita, anche lei ha una passione smodata per le scarpe e sui Instagram per molto tempo ha postato foto di sandali e tacchi 12, poi di colpo ha smesso. Perché?
Perché sono cambiata io ed è cambiato il contesto storico. In questo momento, l’eccessiva ostentazione la trovo di cattivo gusto. Rimango un’affezionata delle scarpe ma sono più saggia: primo ero capace di fare chilometri per comprare il modello che volevo, ora non me ne frega più nulla.