L'ex stopper, nato calcisticamente nell'Inter col nerazzurro che gli è rimasto dentro sempre, si era contagiato a novembre. È deceduto all'ospedale Niguarda di Milano in seguito a un'infezione
Non ce l’ha fatta Mauro Bellugi: l’ex stopper dell’Inter e della Nazionale è morto oggi, a 71 anni appena compiuti, all’ospedale Niguarda di Milano in seguito a un’infezione. Bellugi nei mesi scorsi aveva subito l’amputazione delle gambe poiché il coronavirus che l’aveva contagiato aveva complicato un quadro clinico già problematico per via dell’anemia mediterranea.
“Mi hanno tolto anche la gamba con cui ho fatto gol al Borussia Monchenglabach in Coppa dei Campioni“, aveva dichiarato dopo l’operazione dello scorso dicembre, ricordando, col consueto stile ironico e scanzonato l’unico gol realizzato in carriera. Lascia la moglie Lory e la figlia Giada, e domani l’Inter giocherà col lutto al braccio il derby col Milan.
Toscano di Buonconvento, tipico toscanaccio: irridente, con la battuta sempre pronta, amatissimo dai compagni per la sua capacità di far gruppo, meno dagli attaccanti avversari per le sue caratteristiche. Uno stopper atipico, marcatore puro e duro esattamente in quest’ordine, ma anche bravo a giocarla coi piedi: di quelli che menarla in tribuna va benissimo, ma quando scappa un sombrero all’attaccante va anche meglio, e se poi invece che menarla in tribuna c’è da menare e basta non ci si tira certo indietro. Chiedere ad Andrzej Szamarch, attaccante polacco giustiziere dell’Italia nei mondiali del 74, ridotto all’impotenza totale da Mauro l’anno dopo, in una gara di qualificazione agli Europei giocata in Polonia, che valse a Bellugi il titolo di “Leone di Varsavia”. O agli attaccanti dell’Inghilterra Osgood e Clarke, annullati nella vittoria di Wembley con gol di Capello.
Nato calcisticamente nell’Inter col nerazzurro che gli è rimasto dentro sempre: esordisce in Serie A nel ’70 grazie a Herrera, Heriberto non Helenio, e vince lo scudetto nel ’71, quello della rimonta clamorosa sui cugini del Milan. Sarà l’unico trofeo vinto in carriera.
Ceduto al Bologna nel 74, non tanto per il valore quanto per l’eccessiva sincerità e la tagliente lingua da toscanaccio gli avevano creato qualche antipatia di troppo diventa titolare fisso tra i felsinei e anche in nazionale, andando ai mondiali nel 1974, senza giocare e poi a quelli del 1978. Chiude la carriera con un campionato a Napoli, ceduto nell’ambito dell’operazione che aveva riportato a Bologna l’attaccante Beppe Savoldi, e poi a Pistoia, dove dopo il ritiro tenta anche la carriera da allenatore, salvo poi decidere che non è quella la sua strada e diventare opinionista televisivo, apprezzato proprio per quello stile che aveva anche in campo: raramente banale, ruvido, tagliente.
Sempre in discussione. All’Inter, in Nazionale, e anche al Bologna, spesso tormentato da problemi fisici: infortuni anche gravi da cui era sempre riuscito a riprendersi grazie alla forza di volontà più che al bisturi dei chirurghi. E anche dopo l’amputazione della gambe era pronto a rialzarsi di nuovo, palesando la sua voglia di cimentarsi con le protesi di Pistorius che avrebbe voluto utilizzare per tornare a camminare, e firmando un’altra impresa stile Varsavia o Wembley: purtroppo non gli è riuscita.