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Derek Rocco Barnabei, la voce di un condannato a morte contro l’orrore della pena capitale

In "Un giorno lo dirò al mondo" (Mondadori) Alessandro Milan, giornalista di Radio24, ricostruisce la vicenda giudiziaria del 33enne italo-americano ucciso dallo Stato della Virginia il 14 settembre 2000 con l'accusa di stupro e omicidio. Lui si è sempre proclamato innocente. La storia di un uomo che si intreccia con quella dell'autore, che porterà più volte la sua voce in diretta. E diventa anche racconto autobiografico

Se fosse condannato oggi, Derek Rocco Barnabei non finirebbe nel braccio della morte, perché la Virginia ha deciso di abolire la pena capitale vent’anni dopo che un ago infilato nel suo braccio ha decretato per legge che smettesse di vivere. La vicenda inizia nel 1993 con l’omicidio e lo stupro di Sarah Wisnosky, 17enne che l’allora 25enne Barnabei frequentava, e finisce in 5 minuti su un lettino del Greensville Correctional Center di Jarratt mentre il condannato a morte continuava a ripetere quello che provava a dire da sette anni: sono innocente. Mai creduto, privato di un processo equo perché in Virginia – dove il governatore di allora Jim Gilmore era soprannominato “Kill more” – bisognava dare risposte in fretta consegnando alle patrie galere un colpevole in poche ore. Costretto a un avvocato d’ufficio perché la giustizia in America ha un prezzo appeso al cartellino. A ricostruire nei dettagli la vicenda di Barnabei contenuta in 4mila pagine di inchiesta giudiziaria è Alessandro Milan, giornalista di Radio24, in “Un giorno lo dirò al mondo” (Mondadori), libro che fa tremare vene e coscienza. Che negli Stati Uniti, anche oggi, sia in vigore la vendetta di Stato, con i suoi rituali asettici e il suo annientamento umano, che in aula di tribunale si decreti la morte di una persona secondo “la legge dell’uomo” fa contorcere dentro.

Se pensate che il libro di Milan voglia portarvi sulla sponda degli innocentisti, vi sbagliate. Non vi traghetterà neanche su quella dei colpevolisti. Vi porta dentro un intenso frammento di vita che l’autore ha vissuto in prima persona, da cui è stato tormentato e assillato per mesi. Per anni. Milan era appena arrivato a Radio24 e si è trovato a fare l’assistente dei programmi (Viva Voce e Helzapoppin’) di Giancarlo Santalmassi. Tra le mani, un giorno, i ritagli di giornali che raccontavano del caso di questo condannato a morte di origini italo-americane che continuava a proclamarsi innocente. Suo padre è morto sette mesi dopo la sentenza definitiva, senza neanche potere dire addio al figlio. La madre invece implorava il mondo di ascoltare il suo grido di innocenza, che però voleva essere quello di tutti i condannati a morte, costretti a subire anche violenze e pestaggi nel silenzio delle mura carcerarie. Travolti da processi non equi, sovrastati da procuratori e giudici che preferiscono il capro espiatorio alla giustizia, dove le prove vengono manomesse o ignorate se non portano dritto alla tesi già formulata dall’accusa. Parliamo di individui spesso poveri, disagiati, minorati, persone con quoziente intellettivo ampiamente inferiore alla media. Perché negli Stati Uniti è più facile essere ricchi e colpevoli che poveri e innocenti.

Milan intercetta il caso, inizia a occuparsene. Barnabei va in diretta in radio, Milan lo intervista più volte, il Parlamento europeo e Papa Giovanni Paolo II si mobilitano per lui. Si dice vittima di un complotto, anche se i testimoni che lo inchiodano lo dipingono come un uomo violento, spaccone, inaffidabile. La sua versione viene silenziata, i suoi avvocati d’ufficio non si preoccupano come dovrebbero di difendere il loro assistito, che soccombe. Allora ci pensa l’imputato, che parla in aula da solo e una volta sola, in un’arringa finale dove grida la sua ricostruzione e la sua frustrazione, ma è come se non avesse detto nulla. Non cambia niente. Alan Dershowitz, il penalista più famoso d’America, dopo avere letto le carte del processo dice: “Questo è il più chiaro caso di innocenza che ho visto in tutta la mia carriera ed è anche il più vistoso caso di ingiustizia”. Ogni volta che gli telefona in carcere, Milan, sentendo le sue spiegazioni forbite e un vocabolario ricco, si domanda spesso se sia sprofondato nella più sfortunata delle congiunture o se sia un impostore. La risposta non conta, il dito punta alla luna, la pena di morte. A un sistema giudiziario che non garantisce un processo giusto, che passa per i soldi che l’imputato può mettere nelle tasche di chi lo difende. Dei periti, dei consulenti. I soldi, se non sei ricco, finiscono. Derek lo sa bene e continua a chiedere perché non vengano analizzati alcuni reperti di Dna, volutamente ignorati dall’accusa. Imputato per stupro e omicidio, viene condannato per entrambi i reati e finisce nel braccio della morte. Fosse stato ritenuto colpevole solo per uno dei due, si sarebbe salvato.

C’è chi dice se poi capita a te, cambi idea sul fatto che la pena di morte sia sbagliata. Nel libro c’è l’ex senatore dell’Oklahoma Brooks Douglass, favorevole alle esecuzioni capitali, che ha assistito a quella di Steven Hatch, uno dei due killer che ha ucciso sua madre e suo padre, ferito lui e violentato la sorella insieme al suo complice Glen Ake. Dopo avere visto morire Hatch ha detto ai giornalisti “che aveva appena assistito a un delitto” e ha aggiunto che “chi pensa che assistere a un’esecuzione possa rendere la sua vita migliore, dovrebbe pensarci bene”. Eppure proprio lui si era battuto affinché i famigliari delle vittime potessero assistere alla morte in diretta. Ha invece perdonato Ake, che ha incontrato in carcere. La sorella di Brooks, Leslie, dopo avere visto morire Hatch era più arrabbiata di prima, perché quell’uomo non ha sofferto come ha fatto soffrire la sua famiglia. Si era semplicemente addormentato, come se fosse in sala operatoria. Donald Cabana, direttore del carcere statale del Mississippi, tormentato dall’avere assistito a tante, troppe condanne a morte, se ne è andato a insegnare diritto ed è diventato convinto abolizionista.

Aveva ragione Santalmassi quando diceva “esecutato” e non “giustiziato”. È scorretto perché contiene la radice di giustizia, ma questa non è giustizia. Lo Stato che uccide non compensa il dolore, non ha il potere del rewind sulla violenza che ha già dilaniato anime e corpi. “Un giorno lo dirò al mondo” disturba, tormenta, resta dentro. Arriva fino alla bara che esce dal carcere di Jarrett col corpo di Barnabei. Milan è a pochi metri, la vede. Lì dentro c’è un uomo ucciso dalla Virginia, che ha vendicato l’ingiustizia con altra ingiustizia, forse mandando a morte un innocente. Ma questo non lo sapremo mai.

(foto: Alessandro Milan. Credit ©Claudio Sforza)