A sette mesi dall’accordo tra i leader europei sul Recovery fund da 750 miliardi e dopo il via libera del Parlamento europeo, giovedì è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale della Ue il regolamento che istituisce ufficialmente il “dispositivo per la ripresa e la resilienza”. Cioè il cuore del Next Generation Eu. Ma gli ostacoli sulla strada dell’esborso dei fondi non sono ancora finiti. Il primo è l’indispensabile ratifica da parte dei Parlamenti nazionali della decisione sulle “risorse proprie” della Ue. Finora solo otto Paesi su 27 hanno provveduto e resta l’incognita dei possibili rallentamenti da parte dei “frugali” e degli Stati del blocco di Visegrad che fino all’ultimo sono stati contrari all’emissione di debito comune da parte della Commissione. Superato questo scoglio, occorrerà poi passare il vaglio della Commissione sul Recovery plan che ora il governo Draghi rafforzerà con dettagli su riforme e investimenti: non dovrebbero esserci problemi vista l’interlocuzione continua con Bruxelles, ma lo schema di rating delineato nel regolamento è piuttosto rigido. Su 11 voti previsti, almeno 8 devono essere “A”. Pena la bocciatura.
Il nodo ratifiche: incognite Olanda e Ungheria – Tutto l’impianto del Next generation Eu si fonda sulla decisione che la Commissione potrà prendere a prestito sui mercati, emettendo bond, la cifra che verrà poi distribuita ai vari Paesi in base alla dimensione delle loro economie, alla popolazione e ai danni subìti causa Covid. Si tratta di un primo embrione di debito comune, la grande battaglia vinta dal fronte dei “solidaristi” che vedeva l’Italia schierata con Francia, Germania e Spagna, mentre il blocco dei “frugali” e dell’Est Europa ha cercato fino all’ultimo di mettere paletti. Tra il varo del regolamento e l’effettiva emissione delle obbligazioni europee c’è però una tappa intermedia: tutti i Paesi devono ratificare la “decisione sulle risorse proprie” che autorizza Bruxelles a contrarre quei debiti.
Ursula von der Leyen, David Sassoli che guida il Parlamento europeo e il presidente di turno del Consiglio dell’Unione Antonio Costa hanno chiesto più volte di provvedere entro fine marzo. Finora però solo otto Paesi hanno provveduto: Bulgaria, Croazia, Cipro, Francia, Malta, Portogallo, Slovenia e Italia (la ratifica è stata inserita nel decreto Milleproroghe che sarà convertito entro l’1 marzo). L’Olanda del dimissionario Mark Rutte, capofila dei frugali, va al voto il 17 marzo e ha rinviato la ratifica a dopo le elezioni. Anche in Germania se ne parlerà ad aprile. Ma la principale incognita riguarda l’Ungheria di Viktor Orban, che a dicembre insieme alla Polonia è stata vicina alla rottura con l’Ue sulla clausola che condiziona il versamento dei fondi al rispetto dello Stato di diritto. Ed è ancora insoddisfatta dell’accordo finale, che pure annacqua il meccanismo di controllo. Non è escluso un ricorso alla Corte di Giustizia europea, con inevitabile allungamento dei tempi.
I voti sui Piani: per il via libera servono otto A – Se l’iter delle approvazioni nazionali e la raccolta dei fondi con bond ad altissimo rating fileranno lisci, rimarrà l’ultimo miglio. Quello cruciale. Cioè l’invio dei Recovery plan nazionali e la loro valutazione da parte di Commissione e Consiglio. Sono già una ventina, tra cui l’Italia, i Paesi che hanno condiviso con Bruxelles una bozza di documento, ma nei prossimi due mesi i piani vanno completati con tutti gli elementi richiesti da Bruxelles. Le cui linee guida prevedono un apparato di milestone (obiettivi intermedi) e target finali misurabili. Di ogni progetto, riforma o investimento va previsto l’impatto non solo economico ma anche ambientale e sociale atteso. Dopo la consegna, l’esecutivo Ue avrà due mesi per esprimersi. Il Consiglio avrà l’ultima parola e dovrà dire la sua entro quattro settimane. In caso di via libera, a quel punto arriverà il prefinanziamento che consiste nel 13% dei fondi totali.
I piani saranno valutati in base a una precisa griglia inserita nel regolamento appena pubblicato in Gazzetta. I criteri indicati sono 11, per ognuno dei quali verrà assegnato un certo “rating” – il regolamento lo definisce proprio così – espresso in voti: A, B o C. Per passare il test occorre aggiudicarsi otto A tra cui quattro per i criteri che riguardano la capacità del piano di affrontare in modo efficace le sfide individuate nelle Raccomandazioni specifiche per Paese e di contribuire “all’attuazione del pilastro europeo dei diritti sociali anche tramite politiche per l’infanzia e la gioventù”, “alla transizione verde, compresa la biodiversità” (a questo va dedicato almeno il 37% delle risorse) e “alla transizione digitale” (20% delle risorse). La A sarà assegnata solo se il Piano concorre “in ampia misura” a questi obiettivi. Non è consentita nessuna C, voto che indica una capacità “ridotta” di raggiungere lo scopo: insomma, basterà prendere una insufficienza per vedersi negare i fondi.