Liberate Enzo Bianchi! Liberatelo da una burocrazia ecclesiastica che ne soffoca la storia. Liberatelo da interventi che non hanno la delicatezza del medico impegnato a guarire una ferita, ma l’ottusità di chi intende risolvere le difficoltà imponendo manette spirituali. Enzo Bianchi, monaco laico, fondatore della comunità di Bose, ha ricevuto l’ordine di trasferirsi forzosamente in Toscana: a Cellole San Gimignano. È la sede di una delle ramificazioni della comunità piemontese.
D’ora in poi, ha spiegato il delegato pontificio Amedeo Cencini in un comunicato, Bianchi e i fratelli e le sorelle che vorranno seguirlo saranno considerati “membri della Comunità monastica di Bose extra domum”. Gli edifici di Cellole saranno messi a disposizione a Bianchi dalla comunità di Bose a titolo di “comodato d’uso gratuito”. Prosegue il comunicato, nel suo stile legnoso e puntiglioso, che conseguentemente la “fraternità monastica di Bose a Cellole” è da considerarsi chiusa. Si precisa che Bianchi e tutti quelli che staranno con lui non possono in nessun modo utilizzare con alcun mezzo – meno che mai su internet – diciture che facciano riferimento a Bose. Così ordina il Vaticano per “evitare qualsiasi confusione e ambiguità in merito”.
Ecco fatto. È separato il grano (di Bose) dal loglio (di Cellole). Il puro dall’impuro. La cronaca finisce qui. E il desiderio dell’apparato vaticano è che si passi ad altro. Nei corridoi viene invocata la maestà delle istituzioni ecclesiastiche: mica si può permettere a fratello Enzo di non osservare le regole soltanto perché è una persona che gode di notorietà e scrive sui giornali! Dove andremmo a finire… mormorano i zelanti fautori della legge.
Il fatto è che a un anno dall’ispezione ordinata dal Vaticano a Bose e a nove mesi dalla “sentenza” che sancì l’allontanamento fisico di Bianchi dalla località della sua comunità (con l’arrivo del 2021 è stata indicata ultimativamente la località precisa del suo esilio) non sono stati ancora resi pubblici i reati di cui si sarebbe reso colpevole. Il che non è un bell’esempio di trasparenza. “Invano – dichiarò Bianchi nel maggio 2020 – a chi ci ha consegnato il decreto abbiamo chiesto che ci fosse permesso di conoscere le prove delle nostre mancanze e di poterci difendere da false accuse”.
Oggi come ieri la sua domanda è rimasta senza risposta. Ora nessuno è ingenuo. Bianchi si è dimesso da priore di Bose nel 2017 ed è evidente che sono sorte con il successore Luciano Manicardi, da lui stesso voluto, tensioni e divergenze sulla direzione della comunità. Non tutti come Francesco di Assisi sono capaci di estraniarsi ad un certo punto dal cammino istituzionale della propria creatura. Non dimentichiamo però che i nuovi movimenti sorti dopo il Concilio sono affollati di capi carismatici a vita o di leader che fanno eleggere successori pro forma e comandano sempre loro. Bianchi ha almeno aperto la strada al cambiamento. Ma non è neanche questo il punto adesso.
C’era da sperare che i mesi trascorsi aiutassero nel silenzio a trovare nuove vie di intesa. Non è avvenuto. È avvenuto al contrario, come racconta Riccardo Larini (per molti anni membro importante della comunità), che dall’elezione del successore, oltre ai quattro espulsi l’anno scorso, già “undici fratelli e sorelle, che avevano emesso i voti, hanno lasciato Bose… e altri quattro membri hanno già chiesto o stanno per chiedere un tempo extra domum… Infine va segnalato che all’elezione di Manicardi nel gennaio 2017 il noviziato era composto da 15 membri tra fratelli e sorelle, mentre ora il noviziato maschile è vuoto e quello femminile si compone di due sole unità”.
E allora il punto oggi è: che cosa intende fare Papa Francesco per valorizzare una personalità che, in oltre mezzo secolo, ha portato lo slancio del Vangelo nell’Italia secolarizzata, con impulsi che hanno suscitato interesse e stabilito legami ben oltre i confini? Negli anni Sessanta, Settanta – in una stagione segnata dal completo disincanto se non spesso ostilità nei confronti del senso religioso – Bianchi ha iniziato a portare generazioni di ceti totalmente differenti a riflettere, meditare, appassionarsi del Vangelo. Ha stimolato a conoscere i tesori della mistica ortodossa. Ha aperto la strada ad un rapporto costante con le altre confessioni cristiane, in una visione non diplomatica dell’ecumenismo ma nella consapevolezza che essere cristiani è antecedente all’essere cattolici, luterani o anglicani. Ha saputo cogliere, infine, in piena sintonia con il pensiero di papa Francesco ma del tutto indipendentemente, il valore della tutela del Creato e dello spogliarsi della mentalità di credenti o non credenti, che si sentono “padroni” della Terra.
Questa storia non richiede oggi un burocratico “passare ad altro”. Non richiede il silenzio di chi non vuole mai disturbare il manovratore, chiunque esso sia. Non richiede la disattenzione della Chiesa italiana, che se vuole davvero fare un Sinodo (come pungola Papa Francesco) deve saper individuare la differenza tra ciò che favorisce la crescita dell’essere credenti e l’operosa burocrazia di chi fa sempre ciò che sempre si è fatto.
La storia di Bianchi interpella infine lo stesso Papa. Nell’ospedale da campo, ha sempre detto, si aiuta a guarire e a rimettere in piedi senza fermarsi a pregiudiziali cartelle cliniche.