di Gabriele Gelmini
Il colonnello Antonio Tejero, membro delle Forze armate spagnole, irrompe in Parlamento, minaccia un golpe e spara qualche colpo di pistola. Questa la scena che sconvolge la Spagna nel pomeriggio del 23 febbraio 1981: credendo nell’appoggio di re Juan Carlos, che avrebbe recuperato i poteri ceduti al popolo dopo la morte di Franco, il colonnello tenta il tutto per tutto quando ormai il processo di transizione alla democrazia sembra completato.
Ma si arrenderà davanti alla resistenza del sovrano – che in un messaggio tv si oppone alla restaurazione di un regime autoritario – coadiuvato dal segretario Sabino Fernandez Campo. Questi, sospettando un coinvolgimento nel golpe del generale Armada, ex segretario della casa reale, capta una sua telefonata al re in cui gli chiede di poterlo vedere per parlare di ciò che sta succedendo in Parlamento: temendo voglia occupare il Palazzo, Fernandez Campo intima ad Armada di non muoversi dal quartier generale dell’esercito. Il segretario attua così il controgolpe che porterà al fallimento dell’insurrezione.
Solo recentemente è emersa un’ipotesi di complotto. Secondo alcuni storiografi, il re avrebbe atteso l’esito delle trattative, cadute nel vuoto, per la spartizione dei poteri tra Tejero e Armada per trasmettere il messaggio alla nazione e blindare così il ruolo della monarchia agli occhi del Paese. Da quel momento, il re non sarebbe più stato il delfino di Franco, bensì il garante della democrazia. Una legittimità che, come riporta Javier Cercas nel romanzo Anatomia di un istante, “prima del golpe [la Corona] non poteva neppure sognarsi”.
Quarant’anni dopo, la storia si ripete. Ma sappiamo anche che da tragedia a farsa il passo è breve. E così a inizio anno abbiamo assistito all’assalto del tempio della democrazia occidentale, il Campidoglio Usa, da parte di un gruppo di facinorosi pilotati via social nientemeno che dal presidente Trump, incapace di accettare la sconfitta alle elezioni. La democrazia appesa a un tweet.
Capaci di irrompere nel robusto (?) apparato di sicurezza, una volta dentro i rivoltosi non sapevano come muoversi: li abbiamo visti stravaccati sugli scranni, vestiti da vichinghi e poi, tranquillamente, andarsene così com’erano arrivati, sorridenti alle telecamere. Dalla società dello spettacolo a quella della performance: anche le insurrezioni popolari ormai non esistono senza post in Rete. E in tutto questo Trump non prende le distanze, ma candidamente ringrazia e invita a rincasare. Così. Un attacco alla democrazia derubricato a ragazzata.
Ma c’è un ma. Cosa sarebbe successo se tra i sediziosi la principale intenzione fosse stata quella di devastare tutto? Di prendere il potere, di rovesciare la democrazia, di dichiararsi a capo della nazione? Cosa sarebbe successo se Mike Pence non avesse chiamato la Guardia nazionale ma fosse rimasto a guardare, magari sperando in un ruolo di rilievo nello scenario che di lì a poco si sarebbe creato?
È stato anche grazie a quella telefonata se l’iniziativa di Trump è fallita. Pence, novello Fernandez Campo, si è guadagnato un posto nella storia americana: è lui che ha calato il sipario sulla pagina più buia della politica Usa degli ultimi anni. Ma ora il neoeletto Joe Biden non vivrà di luce riflessa, come accaduto alla monarchia spagnola. Anzi: il nuovo presidente ha ereditato un paese spaccato, stanco e più che mai privo di credibilità. Chissà se sarà in grado di risollevarlo.