di Gabriele Cela
Da fanalino di coda a fulcro del dibattito politico italiano, mi fa piacere, da studente, che oggi si parli tanto di scuola. Però mi permetto di evidenziare che questa improvvisa attenzione, oserei dire ciclopica rispetto al passato, è anche un po’ orba. Chi vive la scuola e nella scuola non può non osservare quanto sia distorta la visione trasmessa all’opinione pubblica.
Politici in cerca di facili consensi e una certa stampa disinformata hanno scaricato sulla scuola italiana ogni colpa, compresa la pandemia. Nulla di più normale, dunque, che colpire studenti e docenti, che in questi mesi hanno utilizzato la Didattica Digitale Integrata (una scelta non loro, ma imposta dal Ministero) con un presunto obbligo di recupero.
Vorrei capire cosa c’è da recuperare. Qualcuno, prima di lasciarsi andare a certe affermazioni, è entrato in una scuola, in una classe? È appena terminato il primo quadrimestre, qualcuno si è preso la briga di verificare se il rendimento scolastico degli studenti sia peggiorato? C’è stata una seria e oggettiva analisi dei dati, dei cosiddetti giorni di scuola “persi”? E, ragionando al contrario, qualcuno ha calcolato quanti contagi si sono evitati, quante vite salvate, quanti studenti e lavoratori fragili preservati e quanti soldi dello Stato risparmiati in cure ospedaliere complesse e dall’esito infausto?
Vorrei che qualcuno mi rispondesse; vorrei che, prima di diffondere notizie false sulla scuola italiana, qualcuno ci entrasse dentro e vedesse come stanno realmente le cose. Non fa un buon servizio chi intervista una ventina di studenti mentre protestano perché vogliono tornare a scuola. Dovrebbe dire anche quanti studenti preferiscono restare a casa.
In Puglia, come stimato dai sindacati, potendo scegliere tra didattica in presenza e didattica a distanza, l’80% di famiglie e studenti ha scelto di restare a casa. Chi ha riportato questi dati all’opinione pubblica? Nessuno, né politici, né giornalisti! Eppure è un dato oggettivo.
Chi intervista studenti in qualche periferia degradata mentre sono in collegamento con la scuola non fa un buon servizio, perché dovrebbe intervistare anche il professore che in quel momento era collegato dall’altra parte e chiedere se il ragazzo, prima della Didattica Digitale, era uno studente modello o uno studente demotivato. Perché, mi dispiace dirlo, ma chi non studiava e non frequentava la scuola prima della DDI non ha studiato e non ha partecipato alle lezioni neanche con la DDI. E allo stesso modo, chi andava a scuola un giorno a settimana, quando la scuola era in presenza, ha continuato a farlo anche con la DDI.
È questa la verità, ed è questo che bisogna raccontare agli italiani. E poi io, stando dentro la scuola, ho visto docenti (non me ne vogliano i miei professori, lo dico con affetto e con orgoglio!) non proprio nativi digitali che all’inizio hanno lavorato duramente per adattarsi alla nuova didattica, hanno investito tempo e impegno pur di veicolare, attraverso tutti i mezzi informatici a disposizione, il loro patrimonio culturale e raggiungere tutti i loro studenti, nessuno escluso.
Non c’è stata soluzione di continuità tra orario di lezione e orario pomeridiano, attivati tutti i canali comunicativi a nostra disposizione, il contatto tra docenti e studenti è diventato continuo e costante nell’arco della giornata. I docenti erano sempre lì, anche solo per dirci “io ci sono”. Neanche un giorno di scuola è andato perduto, anzi, le giornate si sono allungate. Però, adesso, “bisogna recuperare”. Alcuni scienziati hanno dichiarato che chi dice che la scuola non è un luogo di contagio vi racconta “balle”. Sia chiaro a tutti: il problema è il rischio di contagio, non la DDI!
Sono un testimone diretto di come la scuola sia andata avanti fino ad oggi, nonostante la pandemia e grazie alla DDI. Credo che nessuno, men che meno chi è fuori dalla scuola, possa arrogarsi il diritto di affermare il contrario.