di Federico Castiglioni
La noiosa diatriba tra i fautori del bel gioco e fautori del risultato è un qualcosa privo di riscontro nella realtà del gioco del calcio, ma ben presente nelle discussioni tra commentatori di bar e, ahinoi, trasmissioni sportive. L’ultima versione dello scontro dogmatico verte ora sulla cosiddetta “costruzione dal basso”, ovvero in soldoni sullo sviluppo della manovra a partire dalla difesa, portiere compreso, sviluppo volto a favorire una risalita ordinata della squadra in possesso di palla.
Spesso, nelle discussioni social e non, a sostegno dell’una o dell’altra tesi ci si focalizza sugli episodi plateali, spesso propiziatori di marcature, come ad esempio il grottesco errore nel disimpegno di Bentancur nei primi minuti di Porto-Juventus o, come mi è capitato di vedere in un tweet pochi giorni fa, la rete del 2-2 di Sau in Cagliari-Roma campionato 2018/2019. Gol quest’ultimo nato da un rinvio lungo del portiere a tempo quasi scaduto, con una seconda palla persa dalla Roma (causa vento, costante di quella partita) e una difesa in parte presa in controtempo, incapace di recuperare nella chiusura degli spazi in una situazione di 5 vs 2 dopo un mancato intercetto di Manolas.
Naturalmente, se il povero Olsen non avesse rilanciato lungo, la Roma non avrebbe subito il pari giocando in doppia superiorità numerica (erano stati espulsi Ceppitelli e Srna nel Cagliari), come la Juve non avrebbe preso gol se Bentancur avesse spazzato il pallone, o se avesse fatto altrettanto Bastoni in Inter-Juventus di Coppa Italia, dove per uscire dal pressing di Ronaldo tentò un dribbling sul portoghese mentre Handanovic usciva sciaguratamente dalla porta togliendo al suo difensore la sicura soluzione di passaggio.
Tuttavia va detto come nei gol concorrano una vasta serie di fattori, concettuali, tecnici, persino casuali. L’errore di Bentancur è il culmine della persistente difficoltà della Juve di attuare una costruzione di quel tipo, difficoltà alla quale concorrono anche le caratteristiche dei giocatori (in primis ovviamente lo stesso uruguaiano, poco a suo agio nel ruolo di costruttore di gioco), il gol di Sau è frutto di una sequela di evitabili disattenzioni dei giallorossi figlie di un cedimento della tensione nervosa.
L’ultima giornata di campionato è ricca di esempi di come non esistano principi in assoluto superiori, ma casomai di come la differenza può farla la capacità di applicazione di tali principi, oltre naturalmente al tasso tecnico. Lo 0-0 tra un Benevento rimasto in 10 a metà secondo tempo e la Roma pare l’esaltazione, per dirla breve, del palla spazzata e pochi rischi, mentre la vittoria dell’Inter nel derby pare un’ode al gioco di posizione e alla costruzione dal basso (si veda la seconda marcatura di Lautaro, azione che parte da Handanovic).
Ma la natura delle cose è più complessa, e non è certo riducibile all’efficacia sulla carta del principio astratto, che anzi viene continuamente corretto, rodato, ibridato. Filippo Inzaghi, che veniva da un gennaio dove il problema principale erano i troppi gol al passivo, certamente ha lavorato su quell’aspetto per cercare soluzioni senza, immagino, star troppo a focalizzarsi sui “principi astratti”. E nelle ultime settimane, seppur il Benevento non appaia una squadra brillante, il trend dei suoi risultati è migliorato.
Tutti gli allenatori, per quanto tendano ad avere preferenze per un principio di gioco piuttosto che per un altro, lavorano sul piano dei problemi concreti che di volta in volta si evidenziano, e al tempo stesso trasmettono concetti ai giocatori per far sì che questi si abituino a trovare, sia sul piano individuale che su quello collettivo, le soluzioni di gioco ritenute più indicate ottenere uno sviluppo tattico coerente. Ovvero, per risolvere problemi. Problemi (e soluzioni) che necessariamente si affrontano tenendo il più possibile conto delle caratteristiche tecniche e delle propensioni naturali dei giocatori stessi. Gli assoluti e i piani perfetti difficilmente esistono nel gioco del calcio, troppe sono le variabili aleatorie. D’altronde, se fosse tutto così semplice, tutti giocherebbero alla stessa maniera, e forse gli allenatori neanche servirebbero.
Prendendo ad esempio un aneddoto citato dal professor Barbero, un grande stratega militare come Napoleone si affidava principalmente all’intuito nel vincere le battaglie, contro la rigida pianificazione tattica dei suoi nemici: “Si comincia e poi si vede”. Il tutto, nella consapevolezza delle capacità e peculiarità della sua Grande Armata, di cui sfruttava pregi e minimizzava difetti. Con le dovute proporzioni, gli allenatori preparano e affrontano le partite in maniera simile. Il che non vuol dire fare “le cose a caso”, vuol dire abituare i giocatori a leggere determinate situazioni di gioco e confidare nella loro capacità di trovare la soluzione più indicata nel caso contingente. Cosa che non sempre riesce perché non sempre tutto va per il verso giusto.
Per l’appunto, Inter-Milan, più che un inno alla costruzione bassa e alla rigida pianificazione che pur spesso si attesta a Conte, pare proprio esser questo: la maggior abilità dei giocatori nerazzurri di trovare le soluzioni giuste e coerenti rispetto agli avversari e contro gli avversari. Il sistema di gioco del Milan sgretolatosi sotto i colpi di Lautaro e Lukaku è lo stesso che aveva permesso ai rossoneri di issarsi in testa alla classifica, ma è evidente da alcune settimane che qualcosa non sta più funzionando e i limiti di vari singoli rossoneri stanno riemergendo (emblematico il crollo di rendimento di Romagnoli).
Al tempo stesso, la più volte sostenuta incompatibilità di giocatori come Skriniar, Eriksen o Hakimi con “il gioco di Conte” (talvolta, con estrema cocciutaggine, ribadita dall’allenatore stesso) sta ormai cadendo anche nei confronti del danese, autore di una prestazione dominante come mezzala di possesso e rivelatosi ben più efficace nella tenuta dei sempre cari “equilibri” rispetto a Gagliardini o Vidal. Tradotto: oramai anche questi giocatori hanno assimilato i famosi principi (e, beninteso, questo è un merito dell’allenatore, per quanto si potrebbe discutere se davvero Eriksen aveva bisogno di 12 mesi di apprendistato). La loro qualità nel metterli in atto fa il resto.
In tutto questo, rimane curioso come la semplificazione schematica dei “principi” ridotta a duello tra “giochisti” e “risultatisti” venga smentita dalle prestazioni e dagli atteggiamenti messi in campo dalle squadre. Esempio: il Milan di Pioli è una squadra che difende lo spazio, con due linee a quattro molto ravvicinate, attenta a non concedere profondità agli avversari ma disposta a lasciare campo alle spalle, al fine di rimanere corta, contrastare la tendenza a schiacciarsi e soprattutto recuperare il pallone alto. Un atteggiamento che alcuni definirebbero “giochista”, per quanto le due linee a quattro di sacchiana memoria siano un po’ fuori moda.
Ma andando a vedere la fase di possesso, costruzione e sviluppo, emerge chiaramente la vocazione alla verticalità dei rossoneri, come tipico delle squadre di Pioli, sempre alla ricerca della prima punta o di Calhanoglu libero tra le linee per il taglio dell’esterno. Se si guarda l’Atalanta di Gasperini, invece, abbiamo una squadra che difende sistematicamente sull’uomo, attua un pressing ancor più spregiudicato 1 vs 1 e quando necessario difende la porta facendo rapidamente convergere gli esterni verso il centro, lasciando spazio sulle fasce e creando quindi una grande densità al centro. Un atteggiamento tattico che prevede una marcatura più “antica” (a uomo) in funzione di un gioco in realtà mirato all’avere superiorità numerica in avanti con un veloce attacco nei famosi “mezzi spazi”, ovvero dove galleggia Ilicic e dove si lanciano gli esterni.
Il tutto, al prezzo della concessione di campo aperto sugli esterni, rischio considerato accettabile per una squadra che di fatto gioca a far due gol in più dell’avversario. Insomma, strumenti talvolta simili usati in maniera diversa, principi di gioco differenti talvolta attuati ricercando anche soluzioni sovrapponibili. E squadre non riconducibili a dogmatiche contrapposizioni.