Chiedo scusa ai lettori ma inizio parlando di una esperienza personale. Anch’io sono stato giovane, e pure gagliardo. Nato a Milano da famiglia milanese, vi ho abitato fino all’età di 38 anni: due bambini (9 e 5 anni), una bella casa (condominio con grande giardino e mutuo a 25 anni), una moglie straordinaria. Ero un lavoratore entusiasta, ben pagato, e a Milano, allora, si lavorava (anni ’70) davvero bene.
Un po’ meno bene le cose andavano per mia moglie. Insegnava alle superiori e se doveva andare in banca doveva procurarsi prima una baby-sitter, perché non era facile parcheggiare in certe zone di Milano. Le cose andavano però davvero male per i miei figli: tossi, bronchiti, bronchiti e tossi… se le scambiavano in continuazione e il secondo, Enrico, rimaneva gracilino e piuttosto ossuto. Sì, bene il lavoro per me, ma per il resto… Fu così che mia moglie ed io cominciammo a parlare di “qualità della vita“, del fatto che si lavora per vivere e non si vive per lavorare, eccetera.
Ci piaceva la cittadina di Varese e allora mia moglie chiese e ottenne il trasferimento, io lasciai l’acciaieria per cui lavoravo (e dove a 33 anni ero diventato dirigente ben pagato e con una carriera in pieno sviluppo) e trovai un lavoro in una società a Solbiate Arno, una forgia più che centenaria. Per qualche mese abbiamo fatto i pendolari alla rovescia: si partiva al mattino da Milano e si rientrava io alla sera e mia moglie secondo orari prestabiliti dall’Istituto tecnico in cui insegnava inglese. Perché Varese? Perché ci piaceva questa città, ricca di giardini e di profumi floreali e di neve d’inverno. Non avevamo lì né parenti, né amici e, come già detto, neppure il lavoro. Tuttavia fu una svolta straordinaria: dal 1977 abitiamo qui. I miei figli acquisirono subito delle gote bianche e rosse e niente più raffreddori o bronchiti.
Ho raccontato questo quadretto mio familiare perché credo che il problema della qualità della vita si sia posto sempre di più in tante famiglie, ma anche perché credo che più ampi spazi e opportunità che allora non c’erano oggi si offrono a chi vuole una vita semplice, sana e in una cornice naturale gratificante, come noi quando scegliemmo di vivere a Varese.
A poco a poco mi è apparso chiaro il concetto di “cluster“, che è una parola della quale mi sfugge il vero completo significato corrente, ma che mi è piaciuta e che adotto per proporre questa nuova visione della vita. Nell’ipotesi del ritorno alla vita civile umanamente sostenibile ma, in ogni caso, piacevole, la parola “cluster” intende definire una forma di aggregazione della società civile “compiuta”, organizzata per offrire una buona qualità della vita in zone adatte allo scopo. Un esempio di cluster? Capri è un cluster a tutti gli effetti, di altissimo bordo e da oltre settemila residenti.
Il motivo fondamentale di richiamo è stata la natura e, successivamente, il turismo che ha avviato una corrente di introiti che consente la sopravvivenza della comunità caprese. Capri ha banche, scuole, pronto soccorso, chiesa, supermercati: per le necessità più importanti è collegata con Sorrento e con altri centri della Campania via mare. Lo stesso dicasi per Ischia, l’Elba, le Tremiti, eccetera. Sì, è vero, si tratta di isole e il concetto di “cluster” è un concetto obbligato, ovviamente. Ma davvero questo concetto deve limitarsi alle isole? Davvero dobbiamo pensare solo al mare?
Molte cose dal lontano 1977 sono cambiate: alcune anche di grande importanza e dalle grandissime conseguenze che influiscono sulla qualità della vita e che fanno sì che meravigliose aree di mezza montagna, piccoli altopiani sulle Prealpi e sugli Appennini, vicinissime alla pianura ma senza lo smog di questa, con luce e sole vividi, aria tersa e pulita, si rendano degni di una vita vissuta in quei paradisi che, un tempo, furono anche sedi di stazioni sciistiche, ma che oggi soffrono della carenza della neve.
Tre sono le ragioni di quanto sto sostenendo: l’evoluzione delle tecnologie per impianti a fune (funicolari, scale mobili, ecc.), l’evoluzione delle tecnologie per gli scavi in montagna e, soprattutto, lo smart working che permette di lavorare anche se l’azienda è lontanissima. Mi piace la traduzione in italiano: “lavoro agile“, ma è piuttosto incompleta. In realtà si tratta di una vera e propria rivoluzione sociale che porterà cambiamenti profondi in quelle famiglie che si installeranno nel cluster dell’altopiano (si pensi come riferimento per esempio all’Altopiano di Asiago): ma porterà cambiamenti anche nella vita in pianura, alleggerendo il traffico e rendendo più spedite le comunicazioni.
È lecito, anzi necessario, attendersi profonde mutazioni anche nelle grandi città, con ripercussioni importanti sulle loro economie. Un collegamento via funicolare con la pianura attraverso un tunnel scavato nella montagna permetterà trasporti di persone, grandi animali e di cose anche di notte o con forte maltempo; i servizi primari nel cluster (pensiamo a una comunità di 2-3.000 persone dotata di tutti i servizi essenziali – scuola, asilo, pronto soccorso, supermercati, centro ricreativo, centro sportivo, eccetera) renderanno la vita migliore a chi vi risiederà, come accade a Capri e a Ischia.
E d’inverno, anche se la caduta di neve si è ridotta, ci saranno attività sciistiche, e non soltanto la domenica. Già oggi diverse stazioni sciistiche prealpine e appenniniche soffrono del “problema neve”, e si sono abbondantemente notate forti diminuzioni nei valori commerciali delle seconde case, che già presentano esempi di abbandono. Tuttavia non mi stupirei se, nel prosieguo del tempo, questo fenomeno non abbia ad investire anche località sciistiche alpine e non solo prealpine o appenniniche: stupendi impianti di risalita rischiano di dover essere smontati e/o rottamati o scomposti nei componenti riciclati. [Continua]