di Adriano Tedde
Lo scorso 18 febbraio, Facebook ha interrotto la condivisione di notizie, creando un grande disagio pubblico in un paese dove ben il 40% della popolazione (11 milioni di persone) si affida esclusivamente al suo sito e alla sua app per le notizie quotidiane. Il disagio è particolarmente grave se si considera che tra le notizie oscurate risultano anche quelle provenienti da bollettini governativi di rilevanza pubblica come i servizi di emergenza, la meteorologia e gli aggiornamenti sul Covid.
Il 23 febbraio, la società ha annunciato che a breve ripristinerà i contenuti bloccati, consentendo nuovamente il traffico di notizie sulla sua piattaforma in Australia. L’obiettivo di questa azione drastica era contrastare le prossime novità normative in materia di rapporti tra editoria e piattaforme web. Il governo di Canberra ha messo a punto un nuovo regolamento, il “News Media Bargaining Code”, appena approvato dal parlamento, che impone la conclusione di contratti per la diffusione di “prodotti” dell’editoria da parte delle piattaforme web, ossia delle notizie che sono frutto del lavoro delle testate giornalistiche.
L’obiettivo dichiarato di questa normativa è quello di impedire la formazione di accentramenti monopolistici inducendo le piattaforme web a sostenere economicamente il giornalismo di qualità prodotto in Australia, settore che da anni, come nel resto del mondo, soffre gli effetti della rivoluzione tecnologica.
In assenza della conclusione di accordi commerciali entro un certo termine, il codice prevede l’obbligo d’arbitrato per stabilire i costi che le piattaforme devono sostenere per la condivisione di contenuti giornalistici prodotti da un editore australiano. Chi ha già concluso accordi con gli editori seguendo la lettera della futura normativa è Google, che inizialmente aveva minacciato di abbandonare del tutto l’Australia se le nuove regole fossero state adottate. Alle minacce iniziali non sono dunque seguite le azioni e il motore di ricerca ha firmato contratti con i principali gruppi editoriali che prevedono il pagamento di laute somme per la diffusione dei prodotti di questi gruppi per i prossimi tre anni.
La società si è dunque adattata alle nuove regole, trovando una soluzione attraverso la piattaforma “News Showcase” dove diffonderà gli articoli di numerose testate australiane (al momento 46). Anche Facebook, secondo prime indiscrezioni, starebbe ora negoziando accordi commerciali con gli editori australiani, nonostante la settimana scorsa avesse dichiarato che avrebbe firmato contratti soltanto in assenza di vincoli legislativi di ogni tipo. Si attende ancora di conoscere i dettagli di questi accordi e quando le notizie su Facebook saranno finalmente sbloccate.
Le reazioni pubbliche e le campagne informative lanciate nelle scorse settimane da Google e Facebook contro il governo sono state dure. Google aveva diffuso video e annunci in cui accusava il governo di creare una “link tax”, ossia una tassa sui collegamenti ipertestuali diffusi dai motori di ricerca andando contro i princìpi di gratuità e apertura su cui si fonda la rete. Per quanto riguarda Facebook, oltre al blocco delle news, ancora oggi nelle principali città del paese si possono vedere per strada e sugli autobus cartelloni pubblicitari del social network che invitano il pubblico australiano a opporsi alla nuova legge. Tale capacità di operare al fine di influenzare l’operato dei legislatori è la conferma del preoccupante strapotere di società che si credono al di sopra della legge.
La vittoria del governo contro i due giganti del web sarebbe dunque una buona notizia, che potrebbe incoraggiare altre nazioni ad adottare misure simili a quella australiana. L’allineamento di Facebook e Google alle nuove regole però rafforzerebbe uno status quo nell’offerta informativa in Australia che le minacce delle scorse settimane sembravano mettere in pericolo, aprendo scenari finora sconosciuti.
Se le due società avessero davvero messo in atto le loro minacce e interrotto per sempre i loro servizi o contenuti informativi in Australia, sarebbe stato davvero un problema a lungo andare? In altre parole, non sarebbe auspicabile che queste due piattaforme, dalle quali tantissimi utenti dipendono passivamente per ottenere notizie quotidiane, si ritirassero dal settore dell’informazione, restituendo ai lettori il compito di andare alla ricerca di notizie direttamente alla fonte?
L’oscuramento delle notizie su Facebook ha gettato nel panico un paese, rivelando la problematica della dipendenza eccessiva del pubblico da questo “social medium”. Con la sigla dei nuovi accordi commerciali, è evidente che l’utenza australiana continuerà a dipendere da queste piattaforme che forniranno notizie prodotte dalla solita vecchia editoria, la quale riceverà a sua volta laute somme da parte di Google e Facebook che si tradurranno con tutta probabilità in nuovi profitti per i loro azionisti.
Insomma, il pubblico si trova tra l’incudine e il martello e mentre si annuncia il successo delle nuove misure, di fatto non si aprono nuovi spiragli né per l’incremento della qualità dell’informazione in questo paese, né per l’assunzione di nuovi giornalisti.
Il governo guidato dal premier Scott Morrison per ora ha incassato elogi per aver mantenuto fede alle sue intenzioni e non essersi fatto intimidire dal comportamento minaccioso dei due “big tech”. Il ministro del tesoro, Josh Frydenberg, ha dichiarato con orgoglio che l’Australia sta combattendo una battaglia “su procura” per il resto del mondo per disciplinare Facebook e Google.
La proposta di legge australiana starebbe dunque già ottenendo i risultati sperati, ponendo regole precise e limitazioni in capo ai due giganti del web, accusati di godere di posizioni monopolistiche dannose per la competitività e il buon funzionamento delle economie del mondo, oltre che per la qualità delle informazioni diffuse. Si tratta di un’azione che incontra indubbiamente il favore di un’opinione pubblica globale sempre più sensibile al cosiddetto tema della diffusione delle fake-news, inevitabilmente associato ai giganti della rete.
Vi è da chiedersi però se l’Australia sia il paese ideale dove iniziare una tanto attesa battaglia al dominio delle grandi società del web, con una campagna che evoca il ristoro del buon giornalismo, la difesa dell’informazione plurale e la lotta a posizioni monopolistiche.
La genuinità delle nobili intenzioni del governo è messa in dubbio quando a parlare di difesa del giornalismo come interesse pubblico e di informazione democratica e plurale sono politici che da anni operano una demolizione sistematica del servizio pubblico australiano (Abc), reo di non seguire la linea politica dei conservatori, con attacchi diretti a giornalisti, licenziamenti e riduzioni drastiche di fondi (quasi 800 milioni di dollari australiani dal 2014 ad oggi).
I dubbi si intensificano quando si osserva che la grande editoria australiana, beneficiaria degli accordi commerciali imposti dalla nuova legge, è tutt’altro che plurale, concentrata in poche mani, a partire da quelle di Rupert Murdoch, il primo a firmare un accordo con Google. Il magnate da solo vanta il 75% dei quotidiani nazionali e locali (e il 23% dell’intera produzione di riviste e periodici venduti nel paese).
Gli altri colossi dell’editoria che godranno dei contratti introdotti dal nuovo codice sono i network televisivi, Nine Entertainment (finanziatore della campagna elettorale di Morrison) e Seven West Media. Queste aziende, insieme alla News Corp di Murdoch, producono un’informazione appiattita sulle stesse posizioni conservatrici riguardo a questioni come immigrazione, rapporti con i paesi della regione Asia-Pacifico e negazione dei cambiamenti climatici.
È inoltre emerso negli ultimi tempi come il network televisivo di Murdoch, Sky News Australia, stia seguendo lo stesso modello informativo finalizzato alla radicalizzazione politica adottato da Fox News negli Usa di Trump. Con la diffusione di teorie complottiste, questo network, che gode di una piccola fetta dello share televisivo nazionale, ha incrementato esponenzialmente il suo pubblico in rete (e con questo i suoi introiti legati alla pubblicità online), raggiungendo oltre 500 milioni di visualizzazioni in giro per il mondo. Sarebbe dunque questa la qualità delle notizie che la nuova legge intende tutelare contro Facebook e Google.
Particolarmente critico sul tema della mancata pluralità nei media australiani è l’ex primo ministro Kevin Rudd, che ha avviato una campagna contro l’indebita influenza esercitata da Murdoch sulla politica in Australia. Lo scorso settembre Rudd criticò già il codice che oggi attira l’attenzione dei media. Dopo la pubblicazione delle prime bozze della normativa, l’ex premier, in un video postato su Youtube, si chiedeva quale fosse l’interesse pubblico di questa legislazione che, a suo dire, non genererà esiti positivi per la pluralità d’informazione.
Rudd sostiene questa tesi sulla base di due aspetti della nuova legge: il mancato obbligo per i gruppi editoriali di investire i proventi degli accordi commerciali con Google e Facebook in giornalismo di qualità e il divieto per l’azienda pubblica Abc (quella stessa azienda che ogni anno perde fondi pubblici) di concludere accordi per il pagamento della condivisione delle sue notizie sulle piattaforme web.
Se da un lato quindi la nuova legge viene celebrata come un importante passo nel necessario contrasto al potere dei giganti del web, dall’altro rafforzerà una vera e propria oligarchia mediatica che non dà garanzie di informazione plurale e obiettiva. È difficile pertanto accettare la descrizione di questo nuovo codice australiano come uno scudo per la democrazia e la pluralità, quando gli effetti positivi di questa legislazione andranno a favore di una editoria posseduta da chi esercita una smisurata influenza sull’opinione pubblica e la politica in Australia, se non nel resto del mondo.
Ps. Per chi fosse interessato a saperne di più, suggerisco questo articolo in inglese che offre un utile commento tecnico sulla normativa australiana e i suoi difetti e indica misure alternative che potrebbero garantire la difesa del giornalismo contro i giganti del web.