Ottanta mila euro “a titolo di pizzo” per i lavori di ristrutturazione del corso Garibaldi a Reggio Calabria. Il 2% dell’intero appalto che ammontava a 4 milioni di euro. È la mazzetta che l’imprenditore Francesco Siclari ha dovuto pagare al boss Paolo Rosario De Stefano, figlio del mammasantissima defunto Giorgio De Stefano. Per un’altra estorsione, relativa ai lavori di rifacimento di piazza Duomo, gli uomini del clan hanno chiesto la “loro parte” all’imprenditore addirittura all’interno della chiesa, tra i banchi della cattedrale.

Coordinata dal procuratore Giovanni Bombardieri e dai sostituti della Dda Stefano Musolino e Walter Ignazitto, l’operazione “Nuovo corso” contro la cosca De Stefano di Archi è scattata stamattina all’alba. Oltre al boss, in manette sono finite altre quattro persone: Paolo Caponera, Domenico Musolino, Andrea Giungo, Domenico Morabito. Questi ultimi due sono accusati anche di associazione mafiosa. Su richiesta della procura, nei confronti di tutti e cinque il gip Tommasina Cotroneo ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Nell’inchiesta, condotta dalla squadra mobile, sono indagati anche Paolo Morabito e Vincenzino Zappia, ritenuto il braccio destro del boss Giuseppe De Stefano.

Stando gli accertamenti della squadra mobile, guidata da Francesco Rattà, tutte e due le richieste di pizzo sono state avanzate dall’indagato Andrea Giungo. È lo stesso Siclari a raccontare l’avvicinamento del clan: “A un certo punto, dopo un po’ di tempo mi dice: sai io rappresento la famiglia De Stefano… se tu hai bisogno qualunque cosa, noi siamo la famiglia più potente di Reggio, le solite frasi… che loro comandano tutto che loro sono in grado di gestire tutto se io avevo bisogno di qualunque cosa dalla ionica alla tirrenica che la famiglia era in grado di intervenire su tutto”.

L’estorsione per i lavori sul corso Garibaldi ha visto come vittima anche l’imprenditore di Cirò Marina Antonio Porta che, con Siclari, era componente dell’associazione temporanea di imprese che si era aggiudicata l’appalto. È sempre Giungo che approccia l’imprenditore per offrire la “protezione” della cosca di Archi: “Dice ‘ti sei aggiudicato i lavori del Corso Garibaldi, eventualmente vedi che noi se viene qualcuno a trovarti di altre famiglie eventualmente gli dici che hai parlato con noi’”. A ogni pagamento degli Stato avanzamento lavori gli uomini del clan si presentavano a riscuotere il pizzo. Alcune volte erano diversi ma tutti, secondo la procura, agivano come appartenenti a quella famiglia di ‘ndrangheta.

In un’occasione, inoltre, l’indagato Giungo avrebbe accompagnato l’imprenditore al cospetto del boss Paolo Rosario De Stefano. “Giungo Andrea aveva condotto manu militari Siclari indicandoglielo come il capo”, scrive il gip nell’ordinanza. “Devi essere vicino alla famiglia” gli avrebbe detto De Stefano per farlo diventare “l’imprenditore di riferimento della cosca”. “Signor Siclari salve, – sarebbero state le parole del boss – mi ha detto Andrea che voi siete un amico nostro… noi dice siamo in grado di proteggervi”.

Il riferimento era alle prospettate “azioni ritorsive” in caso di mancato accoglimento della richiesta di pizzo. Gli indagati, infatti, rivendicavano quello che i pm descrivono come “il diritto di autorizzare l’esecuzione dei lavori edili nella zona controllata dal loro sodalizio mafioso”. In sostanza, per i De Stefano, l’imprenditore aveva la “necessità di ‘protezione’ anche in ragione dei danneggiamenti e dei furti perpetrati nei cantieri”. Per la seconda estorsione, quella per il rifacimento di piazza Duomo, Siclari viene di nuovo avvicinato da Giungo: “Mi dice di entrare dentro la chiesa, la cattedrale. Con questo con sta motocicletta mi affiancano sulla via San Francesco Da Paola e mi dicono di fermarmi e mi fa segno che devo entrare dentro la cosa… entriamo dentro la cattedrale, ci sediamo in un banco, io terrorizzato perché ho… da cominciavo a capire la pericolosità del soggetto”. Per dirla con le parole il gip Cotroneo, dall’inchiesta della Dda di Reggio Calabria emerge la “morsa asfissiante” nella quale “rimangono vittime gli operatori imprenditoriali del territorio governato da cosche di ndrangheta potenti, storiche e terribili come la cosca De Stefano”.

“È mafia storica radicata da tempo e nel tempo – si legge nell’ordinanza di custodia cautelare – Un vero e proprio antistato strutturato militarmente e gerarchicamente, solido e potente. Ha dimostrato, infatti, capillare organizzazione, estrema professionalità nel delitto e proclività a delinquere, predisposizione di uomini, mezzi e capitali. Si tratta di struttura di ‘ndrangheta dotata di arsenali di armi, che vanta al suo attivo nel suo passato cruenti fatti di sangue e che anche all’attualità è pronta a compierne di ulteriori con una fame mai sopita di affermazione del dominio, con un programma criminoso che spazia dalle estorsioni ai reati in materia di armi”. In sintesi, la cosca De Stefano “governa il territorio di riferimento, controlla il mondo dell’impresa, delle attività produttive in genere, degli esercizi commerciali”.

Per il procuratore Giovanni Bombardieri, “a Reggio Calabria il pizzo lo pagano tutti, anche gli ‘ndranghetisti. Lo pagano meno o in modalità diverse, ma lo pagano. È una regola di ‘ndrangheta che ha trovato conferma sempre nelle nostre indagini. In un territorio come questo l’economia viene inquinata dall’intervento della ‘ndrangheta, ma bisogna distinguere l’imprenditore che paga e che è vittima, da quello che beneficia di quel pagamento”. Quindi l’invito agli imprenditori reggini “a ragionare su questo perché spesso non ci si rende conto che la propria soggezione alle cosche di ‘ndrangheta può diventare a lungo andare un meccanismo di inquinamento del mercato libero dell’economia”, ha aggiunto Bombardieri. “Noi invitiamo gli imprenditori a ribellarsi di questo pericolo, di quest’insidia. Sono benefici che trasformano la posizione dell’imprenditore: da vittima a partecipe, soggetto beneficiario di determinate condotte”. Non è questo il caso di Francesco Siclari che ha avuto il coraggio di denunciare la cosca De Stefano: “Non si può demonizzare e criminalizzare tutta l’imprenditoria – conclude il procuratore – ma si deve valutare caso per caso, situazione per situazione, relazione per relazione. Noi dobbiamo chiedere agli imprenditori di liberarsi dalla paura e di essere assistiti dallo Stato”.

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