Ci voleva così tanto per capire da che parte stavano realmente queste quinte colonne che ci hanno rintronato pontificando di “democrazia normale”, di “competenza” o di “ritorno alla responsabilità”, mentre allestivano le trappole in cui far cadere i timidi tentativi di frenare l’eterno dominio degli amici degli amici; mentre scavavano la fossa in cui precipitare e seppellire l’intollerabile critica – ovviamente criminalizzata come “populistica” – del privilegio spudorato e cinico?

I Massimo Giannini e le Concita De Gregorio, così indignati per “i troppi errori” del premier alla guida del governo giallorosa. E se gli chiedi quali sono in concreto questi errori ribaditi apoditticamente, farfugliano di mancato rispetto di timing previsti per le conferenze stampa serali o altre risibile quisquilie provocatoriamente strumentali.

Si capisce perché Lilli Gruber ci propina sistematicamente la presenza buonistica del Gandhi all’amatriciana Walter Veltroni, quello che ha disarmato unilateralmente ogni forma di resistenza alla tracotanza del berlusconismo (edulcorandone l’artefice nella contorta perifrasi “leader del principale schieramento avversario”) in una sorta di francescanesimo dolciastro: offrire l’altra guancia agli sganassoni dell’avversario. Quella Destra che ne ha approfittato subito per massacrare la nostra Costituzione democratica di matrice antifascista e dilagare nel Paese. Era tanto difficile smascherare i reali intenti di penne al lavoro nelle testate reazionarie; le imbarazzate acrobazie di un Alessandro Sallusti per accreditarsi come commentatore distaccato, mentre vellica le pulsioni revansciste del proprio audience forcaiolo?

Ormai dovremmo aver capito che tutti questi personaggi non chiedono altro che la propria cooptazione, magari solo uno strapuntino, nel sistema di potere bipartisan che è venuto consolidandosi alla fine della stagione welfariana; e sorgeva l’alba dei più biechi regolamenti di conti da parte di chi “non aveva imparato niente, non aveva dimenticato niente”. Un sistema che non tollera il benché minimo uso critico della ragione, in quanto sovversivo.

Sicché sembrerebbe palese il motivo per cui, accompagnato da cori gregoriani che ne tessono le lodi celesti, il silente Mario Draghi è stato tratto dall’urna umbra in cui era conservato; in attesa del momento in cui ascendere alla carica di presidente della Repubblica. Per riportare indietro di quattro decenni le lancette della storia a favore di ben precisi interessi. Come risulta dal bestiario imbarazzante del governo dei “migliori”, arricchito dalla seconda ondata di sottosegretari misurati sul metro Cencelli. Come si evince dai consigliori che accompagnano il mellifluo banchiere, in perenne grisaglia scura, da cerimonia nunziale.

In primis il Brambilla che ha sciacquato i panni nel Potomac. L’iperliberista Franco Giavazzi, propugnatore della messa in salamoia dell’intervento pubblico in economia per favorire il più sfrenato privatismo. Quell’interesse privato, fisiologicamente orientato alla speculazione, oggi in stato di totale fibrillazione per l’arrivo di una montagna di euro da Bruxelles.

Infine, nel breve periodo in cui durerà l’effetto demistificazione (attraverso la finestra aperta il 13 febbraio scorso sui reali intenti del golpe bianco), potremmo liberarci finalmente dell’equivoco Beppe Grillo; il pifferaio che ha giocato a fare il capopopolo virando l’indignazione a gag e allestendo un carro di Tespi chiamato Movimento. Mentre nessuno pareva accorgersi della sua intrinseca natura di borghese piccolo, piccolo; affascinato dalla frequentazione dei potenti. Magari le telefonate con Draghi. L’estasi da parvenu che gli ha fatto scambiare Roberto Cingolani per lo zar dell’ambiente. Il tipo che pretendeva di “tirare il pacco” chiamato ministero della Transizione ecologica riempiendolo di renziani e confindustriali.

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