Il gruppo ha aggiornato gli obiettivi e punta alla completa neutralità climatica. Ma per gli ambientalisti i tempi sono troppo lunghi e tra gli investimenti green vengono inseriti "anche concetti vaghi di decarbonizzazione (perfino la cattura e lo stoccaggio della CO2), economia circolare (che significa anche bruciare rifiuti e, di conseguenza, inquinare) e bioraffinerie” alimentate anche con scarti dell'olio di palma
Il richiamo del Recovery Plan e i nuovi target dell’Unione europea producono i primi effetti. Nel piano strategico 2021-2024 presentato da Eni nei giorni scorsi, si alza l’asticella sull’obiettivo delle emissioni. Quei fondi saranno disponibili solo per aziende con un piano di decarbonizzazione ambizioso. E il Cane a sei zampe, che chiude il 2020 in pesante rosso, conta di partecipare alla partita, avendo abbandonato il target dello scorso anno che prevedeva una riduzione dell’80% entro metà secolo per puntare invece a raggiungere la completa neutralità carbonica. E con il nuovo piano prevede miglioramenti anche per gli azionisti. Ma per gli ambientalisti l’azienda che nel 2018 “ha emesso 537 milioni di tonnellate di CO2 (più dell’intera Italia)” non può aspettare tempi così lunghi per iniziare a ridurre in modo drastico. In un post pubblicato da Greenpeace, l’organizzazione analizza punto per punto le novità del piano, giungendo alla conclusione che “nei prossimi anni Eni estrarrà e brucerà più gas e più petrolio, mentre le rinnovabili continueranno ad essere pressappoco ignorate”.
IL PIANO DI ENI – L’amministratore delegato Claudio Descalzi ha definito il piano “concreto, dettagliato, economicamente sostenibile e tecnologicamente realizzabile” annunciando la fusione dei business delle energie rinnovabili e del retail del Gas & Power. Il primo dovrebbe far crescere la “già ampia base clienti del retail”. E proprio sul Recovery fund: “Può essere una buona possibilità per noi, soprattutto per la fase di transizione. Abbiamo vari progetti. Non abbiamo inserito nessun fondo del Recovery in questo piano. Quindi il Recovery sarà in aggiunta”. Quelle risorse andrebbero a “incrementare la transizione nelle bio-raffinerie, nel waste to fuel (processo che permette di trasformare in bio-olio la frazione organica dei rifiuti solidi urbani, ndr) e Ccs (Carbon Capture and Storage, ndr) questo sarà il risultato del Recovery plan”. Il piano porterà il gas, nel lungo termine, a rappresentare oltre il 90% della produzione di Eni.
EMISSIONI ZERO, MA LA RIDUZIONE È MOLTO GRADUALE – Ma se è previsto che si raggiungano le zero emissioni nette entro il 2050, cosa accadrà prima? Eni ha aggiunto i nuovi obiettivi di riduzione di emissioni del 25% (rispetto al 2018) entro il 2030 e del 65% entro il 2040. Per Greenpeace, però, si scommette tutto su una decarbonizzazione di lungo periodo. “Basti pensare che il 75% dell’abbattimento delle emissioni di CO2 – spiega a ilfattoquotidiano.it Luca Iacoboni, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace – avverrà solo dopo il 2030, ignorando quanto sostiene da tempo la comunità scientifica”, ovvero che il decennio 2020-2030 è quello in cui dobbiamo concentrare i massimi sforzi di decarbonizzazione. In pratica, quando l’azienda arriverà a ridurre sostanzialmente le emissioni potrebbe essere già troppo tardi.
GLI INVESTIMENTI – Al di là dei tempi, Eni conta di arrivare alla totale decarbonizzazione dei prodotti e delle operazioni attraverso le tecnologie già esistenti. Pur essendoci molti riferimenti alla sostenibilità, quando si parla di investimenti, su un capitale di circa 7 miliardi l’anno “più della metà andrà a gas e petrolio, e solo il 20% ad attività green e al settore retail, tra l’altro considerati insieme”. Ma nelle attività “green” non ci sono solo le energie rinnovabili (e il settore retail) “ma anche concetti vaghi di decarbonizzazione (perfino la cattura e lo stoccaggio della CO2) – commenta Greenpeace – economia circolare (che significa anche bruciare rifiuti e, di conseguenza, inquinare), bioraffinerie”.
GLI STRUMENTI – Proprio per queste ultime si prevede il raddoppio della capacità produttiva a circa 2 milioni di tonnellate entro il 2024 e un aumento di 5 volte entro il 2050. Se per questo tipo di processi finora Eni ha usato principalmente olio di palma proveniente soprattutto dal Sud est asiatico (milioni di ettari di foresta pluviale sono stati distrutti per fare espandere le piantagioni, ndr), il colosso energetico ha appena annunciato che, entro il 2023 le bio-raffinerie saranno palm oil free “con un apporto crescente di materia prima proveniente da rifiuti e scarti che copriranno circa l’80% del totale nel 2024 rispetto al 20% attuale”. Potrebbe essere una buona notizia “perché l’obiettivo al 2023 è certamente positivo”, se non fosse che Eni smetterà sì di usare l’olio di palma “ma non gli scarti dell’olio di palma, come confermato dall’azienda stessa – spiega Iacoboni – e questo significa dare valore sul mercato allo scarto del prodotto, che a sua volta continuerà ad essere venduto”. Poiché parliamo di Paesi dove le filiere non sono certo famose per i controlli serrati: “già oggi in Italia arriva olio di palma fato passare per scarto. In generale poi, l’importazione di residui e scarti crea un problema enorme sia dal punto di vista dei trasporti che della combustione”.
E siamo al tema dell’economia circolare. Il piano prevede un incremento dell’uso di biogas, scarti e riciclo di prodotti finali, ma non si entra nel dettaglio, così come si dice che verrà utilizzato idrogeno verde e blu per alimentare le bio-raffinerie e altre attività industriali altamente energivore, ma non si chiarisce in quale percentuale verrà utilizzato quello blu, a basse emissioni di carbonio, generato però utilizzando fonti non rinnovabili come gas naturale o nucleare, e in quale quello verde, derivante dal processo di elettrolisi che sfrutta energia elettrica proveniente da fonti rinnovabili (solare, eolico). Ad oggi, va ricordato, il 99% della produzione di idrogeno è caratterizzata dall’uso di fonti fossili.
IL NODO DEL CCS – Dato che le emissioni diminuiranno in modo graduale e non c’è traccia di una riduzione dell’utilizzo dei combustibili fossili (nel Piano la produzione aumenta del 4% l’anno) l’azienda punta molto sull’assorbimento delle emissioni da parte delle foreste e sulla cattura e lo stoccaggio della CO2. Tra l’altro, agli inizi di gennaio, in una bozza del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) era stato previsto un finanziamento da 1,35 miliardi per il centro di Ccs di CO2 a Ravenna, poi scomparso nella versione successiva del documento. Eni elenca, tra gli strumenti che metterà in campo, “il Carbon capture naturale o artificiale per assorbire le emissioni residue”. Con i progetti di conservazione delle foreste in Africa, Asia meridionale e America Latina “si prevede di compensare oltre 6 milioni di tonnellate all’anno di CO2 entro il 2024 e oltre 40 milioni al 2050”. Chiara la posizione di Greenpeace: “È innanzitutto poco etico pensare di poter usare un bene comune, in cui spesso vivono delle comunità, per rendicontare un assorbimento delle proprie emissioni. Inoltre, se tutte le aziende del settore fossile imitassero la strategia di Eni, non basterebbe un intero Pianeta ricoperto di foreste per assorbire le emissioni del settore energetico”.
Per i progetti di Ccs, settore su cui Descalzi vuole puntare anche grazie al Recovery Plan, il Cane a sei zampe calcola una capacità totale di stoccaggio di CO2 di circa 7 milioni di tonnellate all’anno al 2030 e 50 milioni al 2050. Per Greenpeace si tratta di una tecnologia molto costosa, fin troppo considerando i risultati raggiunti finora nel mondo. L’ultima notizia poco incoraggiante è arrivata all’inizio del 2020: l’annuncio della chiusura definitiva dell’impianto di cattura e stoccaggio della CO2 di Petra Nova, in Texas, inaugurato nel 2016 e finanziato con 195 milioni di dollari sborsati dal Dipartimento per l’energia del governo federale degli Stati Uniti.
LE RINNOVABILI – Per quanto riguarda le rinnovabili, il colosso dell’energia prevede un aumento della capacità a 4 GW nel 2024, 15 GW al 2030 e 60 GW al 2050 “pienamente integrata con i clienti Eni”. Meno integrata rispetto a quanto, almeno sulla carta, dovrebbe accadere in altri Paesi, attraverso le grandi aziende del settore del petrolio e del gas. British Petroleum ha un obiettivo di 50 GW entro il 2030, mentre la francese Total punta a quota 100 GW. “Anche questi sono ovviamente solo annunci – conclude Iacoboni – e parliamo di aziende petrolifere ben lontane dal fare ciò che serve per contrastare la crisi climatica, ma certo è più di quello che fa Eni in Italia”.