È sconcertante che il processo “Rinascita Scott”, che da gennaio è in corso nell’aula bunker di Lamezia Terme, sia sistematicamente ignorato dai media e dall’opinione pubblica. Pochi sanno di cosa si tratta, perciò è necessario rinfrescare la memoria.

La procura di Catanzaro, Nicola Gratteri in primis, ha portato a giudizio 355 imputati, tutti affiliati alle cosche calabresi. È il più importante processo a un’organizzazione criminale mai celebrato in questo paese dopo il maxi processo a Cosa Nostra dell’86. La cortina di silenzio scesa su questo evento epocale però non stupisce. Per esperienza personale, una drammatica esperienza personale, so che da anni la mafia interessa poco alla politica. Tutto l’interesse è stato riversato sull’immigrazione e sulla possibile infiltrazione di terroristi islamici, un’attenzione ingigantita dai politici nostrani. Gli sforzi si sono ridotti solo al contrasto di un’immigrazione ormai ai minimi storici.

Poi sono arrivati il Covid-19, gli attacchi dei dioscuri omonimi, i due “Matteo”, la crisi di governo. Ma, Covid a parte, i problemi veri, reali, sono altri. Si chiamano mafie, corruzione, evasione fiscale. La mafia è dimenticata, ma intanto i clan sottraggono 100 miliardi di euro all’anno alle casse dello stato. I mafiosi non si vedono, non si sentono, la gente tace per paura: evocare la mafia non è utile nelle cabine elettorali. Ci si preoccupa solo quando Cosa Nostra mette bombe in autostrada o nelle città mirando alla strage di uomini e donne dello stato.

Per il resto sono considerate quasi un fenomeno tipico italiano, folcloristico, qualcosa di cui quasi non possiamo fare a meno. Il padrino di Coppola, il camorrista di Gomorra, il boss calabrese che brucia santini per dare la Santa, i gangster foggiani che buttano giù negozi e persone a suon di bombe e AK47.

La politica snobba la lotta alla mafia, soprattutto quella calabrese. Questa è silente, ombrosa, impenetrabile, non fa chiasso, non uccide, non mette bombe, e non perché questi metodi non facciano parte del suo Dna, ma per una precisa strategia: meno si mostra, più viene ignorata. E la totale assenza di interesse pubblico per il processo Rinascita Scott dimostra che è una strategia purtroppo vincente.

La forza morale di un paese consiste nel riuscire a colpire anche le ombre, se sono pericolose. L’Italia ci riesce? Per quello che ho appena detto ci riesce poco, ma è già un ottimo risultato che, nonostante il generale blackout mediatico, comunque c’è un processo in atto: lo stato non ha ancora abdicato alla propria funzione. È vero che non se ne parla, ma ciò che è importante è che il processo sia in corso.

La procura di Catanzaro è riuscita a portare alla sbarra gli affiliati dividendoli in vari filoni: quello principale presso il Tribunale di Vibo Valentia e che si terrà nell’aula bunker di Lamezia Terme (345 imputati), poi Tribunale di Catanzaro (6 imputati), Cosenza (4 imputati), Corte d’Assise di Catanzaro (13 imputati) e i riti abbreviati (91 imputati). Uno sforzo gigantesco di cui bisogna dare merito al procuratore Gratteri. Nicola Gratteri è uno che fa bene il suo mestiere, senza tirarsi indietro e sfidando le minacce. Oggi, in questo mondo di penosi Grandi fratelli e Live D’Urso, fare fino in fondo il proprio dovere ti fa spiccare, ti fa diventare quasi un eroe.

E allora diciamo pure senza retorica che Nicola Gratteri è un eroe. Un eroe della normalità: facendo il suo dovere è riuscito a portare alla sbarra parte della ‘ndrangheta, e non l’Italia, ma il mondo intero dovrebbe ringraziarlo. Perché? Perché forse tu che leggi non sai cos’è davvero la ‘ndrangheta. Perciò ora mettiti comodo e permettimi di spiegarti come funziona l’Onorata Società calabra, che ho conosciuto personalmente. Poi ne riparliamo.

Dopo la norma che nel ’92 bloccò i pagamenti dei seque­stri di persona, i calabresi decisero di investire i miliardi acquisiti con i rapimenti nell’acquisto di coca dal Sudamerica. La vera origine dell’impero creato dalla mafia calabrese ha questa data precisa. Gli affari cominciarono ad andare bene, e la ‘ndran­gheta invase l’Italia di cocaina. Conquistò la piazza di Mi­lano, poi di Torino, diventò monopolista in tutta l’Europa.

La via privilegiata da cui passa la droga fra Messico ed Eu­ropa è il mare. Le navi partono dal Sudamerica, in partico­lare dal Venezuela, e puntano ai porti di Gioia Tauro e Rot­terdam. A Gioia Tauro spesso lasciano sequestrare cento o duecento chili di coca per distrarre i controllori, poi ne fanno passare a tonnellate in altri porti. Da mafia che odorava di formaggio, quella calabrese si è trasformata nella prima mafia europea e, forse, mondiale, grazie al predomi­nio nel traffico di stupefacenti. Dopo il periodo dei sequestri di persona, ai figli dei boss bastò poco per intuire che il futuro era nella droga, e in particolare nella cocaina.

Dopo il ’92 alcuni di loro si recarono in Sudamerica dove, con abi­lità commerciale, cominciarono a intrattenere rapporti sempre più privile­giati con i gangster dei cartelli colombiani e messicani, fino a portare la mafia calabrese a quello che è oggi. Hanno vissuto in ville dorate in Messico, in Uruguay e altrove. Vivendo in zona potevano gestire i traffici in modo sicuro. La ‘ndrangheta ha inviato in pianta stabile dei broker in Messico per gestire le continue richieste di coca. Uno di questi è Bruno Fuduli, che poi ha collaborato con la giustizia. Altri due sono Pasquale Locatelli, bergamasco, e Roberto Pannunzi, ro­mano. Entrambi sono in carcere, ma certamente ce ne sono altri che non conosciamo.

La ‘ndrangheta non ha broker solo in Messico e in Colombia. Ne ha anche in molte città italiane per trattare le compravendite di partite importanti di cocaina. Oggi la mafia calabrese è ovunque. A Milano pos­siede bar, ristoranti, alberghi, agenzie, centri commerciali, ed è infilata nella sanità, nelle banche, nelle bische, gestisce lo scambio di voti alle elezioni politiche e amministrative. Fra le sue file ha uomini delle istituzioni, banchieri, notai, commercialisti, avvocati, diplomatici. D’altronde l’organizzazione originaria, che ha le basi in Calabria e comanda attraverso il crimine, non riu­scirebbe mai a muovere certe somme di denaro e fare acqui­sti nell’edilizia di mezzo mondo se non si affidasse a pro­fessionisti qualificati.

Le indagini hanno accertato che gli ‘ndranghetisti hanno stanze piene di banconote e passano le notti a contare soldi, ma poi quei soldi in qualche modo li devono ripulire. Perciò si met­tono nelle mani di commercialisti e avvocati, spesso setten­trionali, gente in grado di gestire il riciclaggio dei miliardi provenienti dalla cocaina. L’Onorata società calabrese – gli affiliati la chiamano così, non ’ndrangheta – adotta la strategia di vivere sott’acqua e di non farsi mai vedere. Non uc­cidono e non organizzano stragi, a meno che non sia stret­tamente necessario. E se devono farlo, lo fanno in silenzio: sparisci nel nulla e ti sciolgono nell’acido.

Il fatto eclatante, come avvenne a Duisburg del 2007, con sei morti, è deciso solo in casi estremi, come in una faida. Perché nelle faide i morti non si nascondono, si esibiscono: l’onore si vendica con il sangue, e il sangue si deve vedere scorrere. Il sistema della ‘ndrangheta or­mai va oltre la pura criminalità. I processi hanno dimo­strato che, quando fra il ’92 e il ’94 i calabresi diedero una mano a Cosa nostra nella strategia stragista dell’epoca, die­tro di loro c’era un impianto che andava al di là di Palermo e Reggio Calabria, e arrivava fino a Roma. Per pulire il fiume di denaro che introitano con la coca, i boss comprano tutto quello che pos­sono comprare. Investono in aziende che producono beni, e non solo a Milano e a Torino, ma in tutto il mondo. In Svizzera, Germania, Canada, Australia e Sudafrica, per fare alcuni esempi.

I messicani la temono, ritengono che la mafia calabrese sia l’organizzazione più affidabile con cui combinare affari. Gli ‘ndranghetisti continuano ancora a praticare l’estorsione a negozi e a imprese, ma lo fanno solo per mantenere il con­trollo del territorio. Con i soldi introitati grazie alla droga, i duecento euro del ristorante dei Navigli o i cento dollari della pizzeria di Montreal per loro sono zero. Ma ri­scuotere il pizzo serve a incutere terrore e far sapere a tutti che loro, comunque, ci sono. Serve all’immagine. Le associazioni ma­fiose vivono anche del consenso del popolo, ol­tre che del timore che incutono.

I boss costrui­scono case, campi sportivi, attività ricreative e molti li adorano. Non è un caso che i mafiosi calabresi siano i soli cui i cartelli sudamericani ricono­scono l’appellativo di “Don”. Sono gli unici par­tner davvero affidabili – ha detto una volta Joaquín Archi­valdo Guzmán Loera. Il nome dice poco, probabilmente dice di più il suo soprannome: in Messico e negli States lo chiamano El Chapo, ed è il capo del cartello di Sinaloa, il più potente del globo.

Una delle frasi-spot registrate nelle intercettazioni telefoniche dei boss calabresi è: “Il mondo si divide in due parti: quella che è Calabria e quella che lo diventerà”. E i calabresi per bene, che sono la stragrande maggioranza, sono i primi a desiderare che ciò non avvenga mai: non hanno nessuna voglia di dividere con chicchessia quella loro meravigliosa terra.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

‘Ndrangheta, la denuncia dell’imprenditore reggino: “Mi hanno chiesto il pizzo in chiesa sui lavori in piazza Duomo”. Cinque arresti

next
Articolo Successivo

Beni confiscati alla mafia, il report di Libera: “Il 62% dei comuni non è trasparente perché non pubblica l’elenco e non dà informazioni”

next