Israele “sta diventando un obiettivo dell’espansionismo geo-economico della Cina“, la quale “sta silenziosamente scavando un solco tra due partner strategici come Stati Uniti e Stato ebraico, che presto, quasi senza accorgersene, potrebbero ritrovarsi in disaccordo“. Queste le allarmate parole che Blaise Mizstal, vice presidente del think thank Jewish Institute for National Security in America (Jinsa), con base a Washington, ha rilasciato a The Algemeiner, a margine della presentazione del rapporto realizzato dallo stesso Jinsa, dall’emblematico titolo “Countering Chinese Engagement with Israel“.
Che Pechino persegua una geopolitica indirizzata dall’ambizioso progetto di interconnessione globale della Belt and Road Initiative non è una novità, perché l’iniziativa coinvolge oltre una settantina di paesi. Quel che è passato finora sottotraccia è la potenziale centralità, nel quadrante asiatico del progetto, di Israele, principale alleato statunitense in Medioriente e goniometro delle sue politiche regionali.
La presentazione del rapporto del Jinsa è arrivata quasi in contemporanea ad una notizia per certi versi inattesa, e che delinea un quadro problematico: lo scorso 1 febbraio, infatti, il quotidiano israeliano Haaretz ha rivelato che alla fine dello scorso anno Tel Aviv ha rigettato una richiesta americana di ispezionare il porto di Haifa.
Washington, infatti, guarda con preoccupazione a quanto sta accadendo da un anno nella città costiera israeliana: accanto al vecchio porto cittadini, infatti, la Shanghai International Port Group (SIPG) sta costruendo un nuovo terminal per container su un’area di 830mila metri quadrati, il cui completamento è previsto per quest’anno, e nel quale avrà diritto ad operare per 25 anni. Sono già tre i miliardi di dollari investiti, per quello che, a sentire il presidente di Sipg in una conferenza di gennaio 2020 in Cina, sarà “il porto più avanzato del Mediterraneo, semi automatizzato, con tecnologie 5g ed in grado a pieno regime di far transitare 1,86 milioni di container annuali.
Due aspetti, interconnessi, preoccupano gli Stati Uniti: le tecnologie di sorveglianza impiegate dai cinesi e la posizione del nuovo terminal, che si trova a meno di un chilometro dai moli della base militare israeliana in cui attraccano le navi americane della sua Sesta flotta, le quali potrebbero essere oggetto delle attività di raccolta di intelligence dei cinesi. Preoccupazioni che erano state in qualche modo già formalizzate lo scorso anno, con la presentazione in Senato americano – dove tuttora si trova – del National Defense Authorization Act for the fiscal year 2020, nel quale si menzionano esplicitamente “le serie preoccupazioni in termini di sicurezza rispetto agli accordi di leasing al porto di Haifa” e si invita il governo israeliano a “considerare le implicazioni di investimenti stranieri nel Paese”.
Da parte sua, il governo israeliano ha specificato che tecnicamente la Sipg è una venture company registrata in Israele, pur con capitali e stakeholders cinesi, ma la posizione dello Stato ebraico è in realtà più complessa, perché gli investimenti in questione riguardano settori strategici. Tel Aviv non può che beneficiare dell’allargamento del porto di Haifa: specie considerando la diminuita servibilità del porto di Beirut, colpito lo scorso agosto da una devastante esplosione, il progetto cinese promette di convogliare enormi volumi di commercio verso Israele, e come ricorda Altay Atli su The Diplomat, maggiore commercio significa creazione di interconnessioni e interdipendenze, che finiscono per rendere i costi di un conflitto più alti, dispiegando quindi un effetto di “induzione alla pace”.
Se per la Cina il progetto di Haifa si inserisce nella Belt and Road Initiative, per Tel Aviv la parola chiave è MAGIC: Mediterranean Arabia Gulf International Corridor. Il porto di Haifa come ingresso principale della connessione tra Israele, Giordania e paesi del Golfo, con una parte dei quali sono stati appena sottoscritti gli “Accordi di Abramo”. Un tentativo, insomma, di rafforzare sul piano commerciale una convergenza geopolitica, anche se ad oggi manca l’intera infrastruttura stradale o ferroviaria per connettere i diversi paesi. In un contesto regionale più stabile, tuttavia, è indubbio che Pechino continui ad investire in infrastrutture nell’ambito della Belt And Road, aprendo un nuovo e forse sottovalutato capitolo della rivalità con Washington.
Da quando hanno allacciato rapporti diplomatici nel 1992, l’interscambio tra Cina e Israele è cresciuto molto: nel 2017, le esportazioni israeliane in Cina hanno toccato i 4 miliardi di dollari, mentre le importazioni da Pechino i 6 miliardi. Gli investimenti cinesi in Israele si attestano attorno agli 11 miliardi di dollari nello stesso periodo, anche se costituiscono solo il 3% degli investimenti cinesi all’estero.
Tel Aviv, tuttavia, non ha ignorato i campanelli di allarme fatti risuonare da Washington: lo scorso ottobre, in seguito all’ennesima pressione americana, il governo ha annunciato l’istituzione del Committee for Approving Strategic Investments, un nuovo ente incaricato di monitorare investimenti stranieri in settori sensibili, e nello specifico di assicurarsi che alle aziende cinesi che operano in Israele non sia fornito accesso ai dati di cittadini israeliani o americani o informazioni sul settore della cybersicurezza.
Va ricordato che all’inizio del nuovo millennio, Washington ha spinto Tel Aviv a tagliare ogni rapporto nell’ambito della Difesa con Pechino, mantenendo unicamente relazioni commerciali in ambito civile e cancellando diversi accordi già trovati con i cinesi. Dal 2004 i due paesi non hanno relazioni nell’ambito della industria della difesa.
Da quando la Sipg ha iniziato a lavorare all’allargamento del porto di Haifa, Washington ha tenuto più di un occhio sulle attività di investimento cinesi in Israele, che da parte sua considera fondamentali i circa 4 miliardi di dollari in aiuti militari che gli Stati Uniti hanno fornito nel 2019: per questo, proprio lo scorso maggio, in sordina, Israele ha rimandato al mittente l’offerta da 1,5 miliardi di dollari di una azienda cinese di Hong Kong – Hutchinson Group – per sviluppare un impianto di desalinizzazione, appaltando il tutto alla IDE Technologies, basata a Tel Aviv. L’impianto, denominato Soreq B, sarà il più grande del Paese e sarà costruito non lontano dalla base aerea di Palmachim e, soprattutto, dal centro di ricerca nucleare Soreq.