FATTO FOOTBALL CLUB - Finisce quella che è stata una vera e propria farsa, di cui tutti nella Capitale conoscevano già l’esito. Ma il problema non sono le leggi: da Torino a Bergamo e Frosinone, chi ha costruito solo un nuovo impianto ci è riuscito in tempi brevi. A Roma (così come ora a Milano), il progetto prevedeva un enorme business park con al al centro un campo da calcio
Un progetto con millemila cubature e al centro, quasi fosse un dettaglio, un campo da calcio. Un’amministrazione ideologicamente contraria alle grandi opere. Una società lontana, più interessata a dare uno stadio alla squadra che alla squadra stessa (che non a caso non ne sarebbe stata nemmeno la diretta proprietaria). Il costruttore più importante della città, editore del quotidiano più influente della città, contro perché tagliato fuori dal cantiere, in mano invece a un immobiliarista che sperava di sistemare i suoi debiti. Un’area degradata e a rischio ambientale, mal collegata, che col traffico del campionato sarebbe diventata praticamente irraggiungibile. Chi l’avrebbe mai detto che con un progetto così qualche cosa sarebbe andato storto.
Dopo 7 anni e quasi un centinaio di milioni di euro spesi per nulla, la As Roma ha ufficialmente rinunciato al famoso stadio a Tor di Valle. Non interessa più perché in tempi di Covid e porte chiuse uno stadio grande non è una priorità, e tra crisi immobiliare e smart working tutti quegli uffici previsti a corollario sarebbero stati difficili da piazzare. Ma in realtà la contingenza temporale sembra solo il pretesto per uscire da un progetto incancrenito, con cui la nuova proprietà dei Friedkin non voleva avere nulla a che spartire. Finisce così quella che è stata una vera e propria farsa, in salsa tipicamente romana, che non si è fatta mancare nulla, dagli scandali politici alle inchieste giudiziarie ai più banali e imprevedibili ritardi procedurali, e di cui tutti nella Capitale conoscevano l’esito.
Adesso che la storia è chiusa, tutti lamentano gli 800 milioni persi di investimento, i 12mila posti di lavoro andati in fumo. Da ogni parte si leva il solito peana per cui in Italia non si riesce a fare nulla e il nostro calcio è condannato ad avere impianti vecchi e fatiscenti. In parte è certamente vero, perché la farraginosità della burocrazia nostrana è innegabile. Ma forse non è proprio questo il caso. Il problema vero di Tor di Valle non è stato che in Italia non si possono fare stadi nuovi, ma che più che uno stadio volevano fare un quartiere intero. In una zona che non lo prevedeva e che non sarebbe stata nemmeno attrezzata a farlo.
Se riavvolgiamo il nastro, è facile rendersi conto che Tor di Valle era semplicemente un progetto sbagliato, nato male e proseguito peggio. Non era solo di uno stadio che si parlava, ma di un enorme business park: all’inizio c’erano persino tre grattacieli firmati dall’archistar Libeskind, poi sforbiciati dalla sindaca Raggi nella smania M5s di riduzione delle cubature, insieme però ad altrettanto valore di opere pubbliche. Sicuramente hanno influito le giravolte politiche, le 101 prescrizioni indicate dagli uffici, il vincolo paesaggistico sulle tribune di un ippodromo che nessuno conosce. Non l’inchiesta per corruzione, quella è più conseguenza che causa del disastro. Ma alla fine Tor di Valle era diventato uno strano ibrido, grande opera ma non più così grande, che non avrebbe migliorato la città, al massimo l’avrebbe incasinata. Ed è soprattutto per questo che è fallito.
Pallone e istituzioni tornano alla carica per una nuova normativa, più permissiva. Potrà essere semplificata ancora, ma la legge sugli stadi è stata già recentemente ritoccata due volte. E funziona. A Torino, ancora prima che entrasse in vigore, la Juventus ci ha messo solo tre anni a farsi il suo stadio (con un’amministrazione tutt’altro che ostile). Lo stadio se l’è costruito il Frosinone, lo sta rifacendo l’Atalanta, nessun intoppo. A Terni, il presidente Bandecchi ha appena presentato un progetto ambizioso (oltre 50 milioni di euro) ma per nulla invasivo, conta di inaugurarlo nel 2024, vedremo come andrà. A Roma invece non volevano fare solo uno stadio: infatti hanno avuto problemi. A Milano lo stesso: pure qui il progetto sembra essersi impantanato (complici anche le vicissitudini societarie dell’Inter). A Firenze, Commisso voleva ristrutturare il Franchi ma solo ed esclusivamente come diceva lui (e questo non sempre si può fare).
La differenza, fra chi vuole fare uno stadio e chi qualcos’altro con la scusa del pallone, è netta. Come sarebbero andate le cose se la Roma avesse voluto costruire solo uno stadio, con i giusti e ovvi ritorni economici, ma senza scivolare verso la speculazione edilizia? È questa la vera domanda che resta della vicenda, che dovrebbero porsi anche i Friedkin. La nuova proprietà ha abbandonato Tor di Valle ma non l’idea di costruire un nuovo stadio della Roma: dalle prime indiscrezioni, si parla di un progetto più piccolo, circoscritto all’impianto e poco altro, in un’area già pronta e collegata, nel perimetro del piano regolatore esistente (Ostiense, o la solita Tor Vergata). Se davvero sarà così, magari persino la Roma riuscirà ad avere il suo stadio. Poi, per carità, sempre a Roma siamo.