IL SERPENTE - 3/3
Herr Stig Dagerman abbiamo un problema. “Il serpente” (Iperborea), romanzo appena tradotto in italiano dopo 75 anni di oblio, ci ha lasciato indifferenti e perfino un tantino infastiditi. Nella pur sempre elegante confezione “verticale” della casa editrice milanese, l’idea di una rappresentazione quasi allegorica della paura, o ancor meglio dell’angoscia, sottoforma di serpente nascosto nel proprio zaino da un reprensibile fante svedese della seconda guerra mondiale, che prima sibila tra i garretti di una sfrontata giovanetta che ambisce le grazie del ragazzo, poi si srotola tra soldati indaffarati a raccontarsi storie kinghianamente inquietanti in caserma, infine muore senza sapere chi l’abbia ucciso, vive di una tale ridondanza metaforica e di linguaggio figurativo tali da dissuadere ogni possibile “appeasement”, anche solo intellettuale, verso l’opera. Strutturato su due parti dove i protagonisti della prima (Bill e Irene) scompaiono totalmente dalla successiva, e una seconda parte suddivisa in sei capitoli disposti su sei differenti punti di vista (i soldati che raccontano), Il serpente pare operazione formalmente invitante ma, riga dopo riga, anche già dopo una cinquantina di pagine, soccombe sotto i colpi ostativi di disorientanti similitudini del “come se” (tra metà pagina 62 e metà pagina 63 ce ne sono sei) e del “sembrava/sembrano” che portano sempre ovunque lontano, oltre, chissà dove, ma mai dentro al racconto. D’accordo. Siamo adulti e vaccinati. Abbiamo visto scorrere (metaforicamente e simbolicamente) inquietudini in ogni dove letterario e temporale. Non abbiamo sempre bisogno di un scheletro riconoscibile del racconto, ma almeno percepire un’omogeneità nel dettato metaforico/simbolico/allegorico risulterebbe, in questa sentita, ironica rappresaglia anticlassicista, “anarchica” (?), un tantino essenziale. L’abbiamo letto ma non l’abbiamo sentito. Voto (zigzagante): 5