C’è un fenomeno, già in essere all’epoca del Governo Conte, che non è per nulla mutato sotto il Governo Draghi. Ci riferiamo al modo in cui i politici approcciano il tema del Recovery Fund; al modo in cui se lo raccontano tra loro; al modo in cui lo decantano ai cittadini. E questo fenomeno non pertiene tanto alla dimensione economica o finanziaria – come ci si potrebbe attendere dal tema in discussione – quanto piuttosto all’ambito linguistico, psicologico e comunicativo.
Ci riferiamo a quell’aspetto oggi definito “narrazione, “racconto” o “storytelling”, come se fosse tutta roba inventata nel XXI secolo. Mentre, invece, è una strategia vecchia come il mondo, solo diversamente designata e riconducibile all’ampia categoria della cosiddetta “propaganda”. “Propagandare” significa, grossomodo, imbellettare qualcosa per renderlo più attraente di quanto non sia. La politica è, per elezione (subito dopo il commercio), il terreno prediletto dai maghi della propaganda. Ebbene, c’è un solo modo per smascherare il gioco dei propagandisti: svelare i trucchi di cui essi si servono.
Nel caso del Recovery Fund, l’operazione è tanto più urgente e doverosa in quanto i piazzisti di tale redivivo “piano Marshall” all’europea non appartengono a un solo partito, ma a tutti, indistintamente. E quando questo accade vuol dire che la democrazia, da qualche parte, scricchiola. La manipolazione, nella fattispecie, si basa su una tipica fallacia classica: quella “semantica” o “di ambiguità”. Consiste nell’impiegare, nell’argomentazione persuasiva, termini ambigui o facilmente equivocabili. Ci riferiamo al fatto che il Recovery è immancabilmente identificato con la seguente locuzione: aiuti europei. Dando così per acquisiti, impliciti o sottintesi (e, quindi, “pacifici” per usare un gergo forense), almeno quattro presunti “dati di fatto”.
Nell’ordine: che si tratti di soldi “europei”; che si tratti di “aiuti”, cioè di sussidi a fondo perduto; che si tratti di erogazioni “liberali” con direzione di sola andata “Europa-Italia”; che si tratti di un ausilio per le “giovani” generazioni. Ebbene, tutte le enunciazioni di cui sopra sono in realtà erronee, benché abilmente dissimulate all’ombra della fallacia degli “aiuti europei”.
Quanto alla prima, i soldi di cui stiamo parlando non arriveranno dalla “Europa” (altro lemma straordinariamente polisemico), ma dai mercati. La Commissione europea, infatti, raccoglierà i fondi emettendo dei titoli e quindi facendosi “veicolo”, o se preferite “ponte”, tra gli investitori in borsa e gli Stati destinatari di quelle somme. Quanto alla seconda affermazione, essa è (in gran parte) fuorviante, se non falsa tout court. Pure in questo caso dipende da cosa s’intende con l’infida espressione “aiuto”: se si guarda agli effetti potenzialmente benefici di questa cascata di risorse aggiuntive, allora esse “aiutano” (portano sollievo, diciamo) come tutte le iniezioni di denaro. Se invece ci si focalizza, più appropriatamente, sulla loro natura, allora i dubbi si moltiplicano. Infatti, su 209 miliardi di “aiuti”, ben 127 sono “debito” a tutti gli effetti. E se attribuiamo, per coerenza, a questo vocabolo la nefasta accezione che tutta la vulgata filo-europeista e pro-austerity degli ultimi anni gli ha sempre dato, allora di tutto si tratta tranne che di “aiuti”. Semmai, appunto, di nuovo “debito”.
Quanto al terzo punto, bisogna chiedersi: tali “aiuti europei” sono davvero unidirezionali? E viaggiano davvero dall’Europa all’Italia? In effetti, e a ben vedere, non solo 127 miliardi sono debiti, ma i restanti 82 (pur essendo sussidi) lo sono fino a un certo punto e solo in un certo senso. Infatti non arriveranno gratis e, per la gran parte, non saranno nemmeno europei, ma italiani.
L’Italia con una mano prenderà 82 miliardi e con l’altra, quale contribuente del Rrf (Recovery and Resilience Facility), ne verserà almeno una cinquantina. Alla fine della fiera – al netto della fallacia e del “dare-avere” suindicati – ci resteranno in tasca, forse, una trentina di miliardi spalmati in cinque annualità. Quanto, infine, al nome del benedetto strumento (Next Generation Eu), anche qui bisogna intendersi. Non ci era sempre stato raccontato che il debito pubblico fa male agli Stati proprio perché viene caricato sulle future generazioni? E allora perché adesso, improvvisamente, esso diventa “buono” per i ragazzi di domani solo perché il creditore è l’Unione?
E perché non raccogliere la stessa somma sui mercati senza tutte le condizionalità e le verifiche (ex ante ed ex post) legate al Recovery Fund? Dopotutto, in questo momento i nostri Btp pluriennali in borsa vanno via come il pane a tassi bonsai. Forse perché è sottinteso che noi non saremo mai in grado di spendere “bene” tutti quei soldi se non controllati, con briglia corta, dal “vincolo esterno”. Ed è proprio questa forma di auto-razzismo, in definitiva, la fallacia più perniciosa da cui molti italiani sono ancora afflitti.