Stop all’uso dei dpcm per regolare i vari divieti nelle zone del Paese e stop anche alla pratica dei “decreti Minotauro”, vale a dire quella di riunire più decreti Covid in uno unico durante l’esame parlamentare per la conversione in legge. Lo hanno chiesto con un voto all’unanimità le Commissioni Affari costituzionali e il Comitato per la legislazione della Camera nel parere al decreto Covid 2 del 2021, emanato il 14 gennaio dal governo Conte. I dpcm tornano così al centro della contesa politica: negli scorsi mesi l’ex premier è stato più volte attaccato dal centrodestra – ma anche da Italia viva e da una parte dei dem – per aver fatto ricorso a questo tipo di provvedimento d’urgenza nella lotta alla pandemia. Ora che Mario Draghi ha fatto lo stesso, con il nuovo dpcm in vigore dal 6 marzo al 6 aprile, i deputati della Prima commissione di tutti i partiti chiedono “discontinuità” a Palazzo Chigi.

Il presidente del Comitato e relatore in Commissione del dl Covid 2, Stefano Ceccanti (Pd), sostiene che “all’inizio dell’emergenza i dpcm contenevano le misure dettagliate di contrasto all’epidemia individuate all’interno del catalogo di misure adottabili previste dai primi decreti-legge. Vista la loro importanza acquisita abbiamo inserito una procedura per la loro parlamentarizzazione“, in base alla quale il governo doveva presentarsi in Parlamento per illustrarli qualche giorno prima di emanarli. “In seguito, però, in modo stabile dal dpcm del 3 novembre 2020 – spiega ancora Ceccanti – essi definiscono stabilmente il quadro delle misure generali da applicare nelle diverse zone (gialla, arancione, rossa e, da ultimo, bianca), mentre la concreta individuazione dei territori è rimessa ad ordinanze del Ministero della salute, che sono poi integrate da altre fonti non legislative come i protocolli”. Arrivati a questo punto, quindi, secondo Ceccanti “il sistema si può semplificare superando i dpcm, che sembrano essere un anello di congiunzione non più necessario. La normativa generale può essere inserita in Decreti-legge e le integrazioni puntuali lasciate alle fonti non legislative (ordinanze e altri strumenti flessibili come i protocolli). Un sistema duale più semplice e comprensibile“.

La Commissione invita quindi il governo Draghi ad adottare questo nuovo modello perché, con la conversione dei decreti, lo stesso esecutivo “sarebbe più controllato e non eluderebbe il controllo delle assemblee parlamentari“. Per quanto riguarda i cosiddetti decreti Minotauro, invece, Ceccanti spiega che sia il Comitato che la Commissione hanno chiesto di evitarla, perché essi “rendono la normativa difficilmente leggibile dai cittadini e comprimono l’esame parlamentare“, visto che l’inglobamento dei precedenti decreti rallenta l’esame del decreto che ingloba a tal punto che esso viene esaminato di fatto solo la una delle due Camere, mentre la seconda in pochi giorni non può che approvarli a scatola chiusa: “Un monocameralismo di fatto – si legge nel parere della Commissione e del Comitato – che necessita invece di essere decisamente superato già in questa fase della vita delle istituzioni”.

Negli scorsi mesi la polemica sui dpcm non si è mai fermata, ma con l’arrivo di Draghi a Palazzo Chigi in tanti – da Matteo Salvini ai renziani, fino a Mariastella Gelmini che oggi fa parte della squadra dei ministri – hanno smesso di attaccare. Le ragioni del ricorso ai decreti del presidente del Consiglio li ha spiegati solo una settimana fa lo stesso Conte, durante la sua lectio magistralis all’università di Firenze. “La strategia normativa” per il Covid, “è stata costruita su tre pilastri: ordinanze del ministro della Salute, dichiarazione stato di emergenza nazionale, l’adozione di decreti legge e Dpcm”, ha chiarito l’ex premier agli studenti. “Non sarebbe stato possibile lasciare l’intera regolamentazione ai solo decreti legge, poiché l’imprevedibilità dell’evoluzione pandemica ci ha costretto a intervenire svariate volte anche a distanza di pochi giorni e, come sapete, la conversione dei decreti-legge va operata dal Parlamento entro 60 giorni, con la conseguenza che la medesima conversione sarebbe intervenuta, il più delle volte, a effetti ormai esauriti o comunque superati dal successivo decreto“. Questa strategia, conclude, “ha permesso al nostro sistema democratico di reggere a questa dura prova, evitando che lo ‘stato di emergenza’ potesse tramutarsi in ‘stato di necessità’”.

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