Ha ragione Lucio Caracciolo quando dice che il Partito Democratico più che un partito è “un’accozzaglia di correnti”. Ha ragione Rosy Bindi quando spiega: “Il Pd è venuto su male. Resettare tutto e ripartire”. Ha ragione anche Gianni Cuperlo quando accusa: “Stare al governo ha rovinato il partito”. I motivi per spiegare il clamoroso addio di Nicola Zingaretti, queste dimissioni sbattute come un ceffone in faccia al partito, e l’invito ai suoi compagni di ventura di vergognarsi di quel che fanno e non dicono, di quel che dicono e poi revocano, sono tanti e il lettore ne troverà certo mille altri.
È un partito che vive una perpetua crisi di nervi, destinato dai suoi geni ad essere non una formazione politica, ma l’ufficio di collocamento governativo in sede permanente. E dunque non idee, passioni, strategie, ma poltrone e poltroncine sono divenute il cibo quotidiano, l’assillo, il bisogno incomprimibile di questa comunità. Già, ma che comunità è divenuta? Il Pd è una zattera che traghetta ogni cosa e quando accoglie sceglie di non selezionare. C’è il buono e il cattivo, il conservatore e il progressista, il clientelare e il legalista. Un concentrato di diversi o l’insieme di sconosciuti. Dunque, non un partito ma un ossimoro.
Perciò le dimissioni di Zingaretti renderanno ancora più certe le divisioni, ancora più feroci le ambizioni, e purtroppo ancora più opaco l’orizzonte. Resterà la convinzione di un partito “gnè gnè”: gnè di qua gnè di là. Una zattera che, malgrado tutto, negli anni resiste ai marosi ma per resistere si alleggerisce sempre un po’ di più dei marinai a bordo: e così ogni giorno qualcuno come Zingaretti si tuffa in acqua e se ne torna a riva.