Ricordate il film Departed di Martin Scorsese (2006), in cui il boss mafioso Jack Nicholson infiltra un suo accolito (Matt Damon) nel distretto di polizia per prevenirne le mosse e metterle fuori gioco? Embè, che altro è stato il “killeraggio” di Giuseppe Conte, alla guida del governo più progressista degli ultimi decenni?
Dunque non è esatta la lettura della vicenda secondo cui oggi assisteremmo al trionfo del bulletto Matteo Renzi: semplice uovo deposto da un boss “cuculo nel nido” del Partito Democratico per fare il lavoro sporco della cosiddetta “rottamazione“; nel caso, rivolta contro lo stesso partito che gli aveva consegnato le chiavi di casa eleggendolo a segretario. Ma sbaglia il simil-Damon sovrappeso a gongolare, pensando di essere il masterchef di una ricetta che dovrebbe mettere in forno la focaccia velenosa che rappattumi gli elettorati piddini e berlusconiani. Con la banda di Italia Viva a fare da lievito e il contorno della canea di botoli ringhiosi a guardia del Palazzo, dove non sono ammessi intrusi tipo amici (avvocati) del popolo; tra i latrati e le perfidie delle Concite e dei De Angelis.
In sostanza, semplici pedine di un padrino collettivo. Quel protervo leviatano che signoreggia il gioco politico italiano, composto dalla sommatoria di anime (nere) dei presupposti “unti del Signore”: l’accozzaglia di politicanti e prenditori che considerano “cosa loro” le risorse (organigrammi pubblici e accaparramenti di denaro) di un Paese incanaglito e ridotto al lumicino dalla irresponsabile avidità del sedicente establishment. Mandante dell’operazione crisi di governo al buio e relativi regolamenti di conti, che ora lasciano sul terreno un altro soggetto che non apparteneva al garden club dei ricchi e potenti: Nicola Zingaretti.
Dopo Departed, la trama di un altro film; in questa realtà più cinematografica che romanzesca, nella versione B-movie: la pellicola Per un pugno di dollari di Sergio Leone (1964), a sua volta remake de La sfida del samurai di Akira Kurosawa. Soltanto che ora il “pugno di dollari” è cresciuto al punto di trasformarsi nella montagna di duecento e passa miliardi del Next Generation Ue. La trama di un bounty killer silenzioso (Mario Draghi) giunto sulla scena della politica, che si allea con le famiglie di destra e di sinistra per condurle entrambe alla rovina.
Ora sta massacrando la componente di sinistra, facendo fuori – uno per uno – capisaldi e personale dedicato; per poi – non si illudano – rivolgersi contro l’altra parte. Quando l’afasico cacciatore di taglie sibilerà al barbuto Matteo Salvini, nella parte che fu di Gian Maria Volonté (e con i mojito al posto della marijuana), la celebre sentenza: “quando un uomo con dietro gli scappati di casa della Lega incontra un uomo armato dalle banche, quello della Lega razzista e sovranista è un uomo morto”.
A ulteriore conferma che le terrorizzanti vicende svoltesi nel bel mezzo di una insorgenza pandemica di inusitata violenza non corrispondono alle pompose, quanto forzate e strumentali, ricostruzioni che ne vengono date: “crisi di sistema” (ma va là!), “passaggio dalla democrazia dal basso alla democrazia dall’alto” (e che vuol dire?) e altre acrobazie intellettuali.
Qui siamo soltanto alla prova finestra di quanto sia inquinato il gioco politico dalle manipolazioni permesse alla grande dalle tecnologie comunicative, che nessuno si prende la briga di regolamentare; di quanto siano scadenti i personali politici che occupano la scena dalla fase terminale della Prima Repubblica, poi dall’orgia di mediocrità reclutate e portate a Palazzo in cambio di sottomissione ai voleri del capo di turno (da Silvio Berlusconi a Beppe Grillo). Che, per spazzarle via, ora basta un sopravvissuto al discredito che ormai travolge la corporazione finanziaria mondiale, la globalizzazione a mezzo banche.